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"...eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto si volgerá nuovamente al bene,che ritorneranno l'ordine, la pace, la serenitá"Annalies Marie Frank
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IL CAMPO PRIGIONIERI DI GUERRA DI SFORZACOSTA - MACERATA

 

1. ANGOSCIA E TERRORE NEL CAMPO Dl CONCENTRAMENTO IL CAMPO PRIGIONIERI Dl GUERRA Dl SFORZACOSTA - MACERATA ANGOSCIA E TERRORE NEL CAMPO Dl CONCENTRAMENTO

di Giancarlo LEGGI

da "Tolentino e la Resistenza nel Maceratese" Pagg.117/123 Ediz. Accademia Filelfica - Tip. Filelfo Tolentino, 1966

 

N.B.: Per ragioni di spazio sono state selezionate le sole parti più specificatamente riguardanti l'argomento oggetto del presente Numero unico, invitando l'attento Lettore a voler consultare l'interessante articolo, nella sua completezza, nella pubblicazione più sopra indicata e dalla quale, quanto qui scritto, è stato stralciato.

 

E' noto come la dottrina nazionalsocialista fosse orientata verso l'assoluta negazione dei diritti personali degli individui. I crimini commessi dai nazisti durante l'ultimo conflitto risentono infatti di questa fondamentale concezione.

Circa 7 milioni e mezzo furono i civili stranieri deportati in Germania, fra il 1941 e il 1945. Di questi, secondo quanto ebbe a dichiarare lo stesso Fritz Sauckel, Direttore e formulatore del programma di lavoro forzato, processato dal Tribunale Internazionale di Norimberga e da questo condannato a morte per impiccagione, soltanto 200.000 furono i volontari.

Le deportazioni in massa, il lavoro coatto, il trattamento riservato ai lavoratori forzati nei Lager tedeschi, sono parte notevole di quel mosaico di crimini che il Nazismo commise contro l'umanità nell'ultimo conflitto. Esse non trovano nessuna giustificazione sul piano morale e pongono chi le commise al di fuori dei confini della civiltà.

Nei Lager di Sforzacosta, i giovani di Tolentino delle classi dal 1914 al 1926, furono internati a centinaia, sia in conseguenza delle azioni di rastrellamento compiute da Reparti italiani di SS che per effetto della pubblicazione di un intimidatorio bando minacciante azioni di rappresaglia verso le famiglie dei reni- tenti.

Da Sforzacosta, un numero considerevolissimo di giovani fu poi deportato in Germania, da dove molti di essi più non tornarono. I primi tolentinati che conobbero la detenzione nel suddetto Campo, furono quelli fermati nel corso dell'azione di rastrellamento compiuta negli ultimi giorni del mese di aprile 1944 da un Reparto di SS. esclusivamente formato da italiani e comandato da un certo Ten. Malanga. I militi piombarono d'improvviso sul centro cittadino e, col pretesto di ricercare disertori e renitenti, effettuarono una vasta retata di uomini validi e non validi, i quali, dopo un sommario interrogatorio, furono trasferiti nelle baracche del vecchio tabacchificio di Sforzacosta.

Il giorno successivo a tale retata, i muri di Tolentino si tappezzarono di un manifesto con il quale i giovani delle classi dal 1914 al 1926, venivano invitati a presentarsi al Comando locale delle SS per assolvere alla chiamata del lavoro obbligatorio (?). L'inclusione tra i precettati dei giovani della classe 1926 rende ancora più criminoso l'atto che i tedeschi attuarono a Tolentino, compiacenti i fascisti. Tali giovani, non soggetti a leva, ancora immaturi e meno temprati alle sofferenze risentirono più degli altri gli effetti della deportazione e dell'internamento in Germania Basta ricordare come, sui sei tolentinati deceduti nei Lager nazisti dopo la deportazione dal Campo di Sforzacosta, ben tre erano della classe 1926

Comunque, un po' per timore della minacciata rappresaglia verso le famiglie, un po' perché fu artificiosamente propagandato che coloro che svolgevano una qualsiasi attività lavorativa sarebbero stati subito rilasciati dopo essere stati forniti di uno speciale documento che li avrebbe esonerati da noie future con i fascisti e con i tedesci, i giovani di Tolentino risposero numerosi all'intimazione. essi dovevano constatare immediatamente come la realtà fosse ben altra. Una volta entrati nella Caserma dei Carabinieri all'uopo trasformata a quartier generale delle SS. essi furono radunati nel cortile e successivamente senza alcuna formalità trasferiti a mezzo di camions a Sforzacosta, e indiscriminatamente ammassati in insieme a gente che in quelle baracche, insieme a gente che già lì si trovava in stato di fermo per reati annonari e per altri reati. Così, quella che doveva essere una semplice chiamata di controllo, si trasformò in un vero e proprio stato di detenzione, al quale per molti, fece seguito poi la deportazione.

"Le SS ci avevano trasferito da Tolentino a Sforzacosta sotto buona scorta - ci racconta Luigi BONFIGLI - e una volta varcato il grande portone del tabacchificio ognuno di noi cercò come meglio sistemarsi nei vecchi castelli di legno già utilizzati dai prigionieri di guerra inglesi, Passammo quasi tutta la notte insonne, non tanto per l'inaspettata piega che stavano assumendo gli avvenimenti, quanto, per le miriadi d'insetti cui erano infestati i tralicci. La nostra preoccupazione fu quella di tenere lontane le cimici mediante l'accensione di fuochi. Ogni nostro tentativo però risultò vano. Il mattino susseguente non pochi di noi accusavano fitte e gonfiori per le punture ricevute. I fratelli Tesei, giunti a Sforzacosta insieme a noi il giorno precedente, erano divenuti irriconoscibili, sia per gonfiore loro prodotto dalle punture degli insetti, sia perché si spalmarono l'epidermide con una bianca pomata, provvidenzialmente filtrata oltre il recinto del campo. Questo piccolo episodio ci risollevò un po' lo spirito perché gli ottimi fratelli Tesei, conciati in maniera tale da sembrare due selvaggi di una tribù di watussi sul piede di guerra, non mancarono di suscitare tra di noi un po' d'ilarità, alla quale, anch'essi, molto simpaticamente, non si sottrassero".

Cartolina

 

 

 

Altra preoccupazione fu quella del vitto. Certamente gli internati di Sforzacosta non soffrirono la fame come tutti coloro che conobbero l'internamento nei Lager in Germania. La distanza relativa che li separava dalle loro abitazioni, permise a qualche familiare di poter far penetrare, oltre il recinto, pur nelle limita- zioni del tesseramento, qualche cosa da mangiare. Parecchi giovani però per ricevere un mestolo di brodaglia di riso ed un piccolo pane nero e duro, dovettero accodarsi, per ore ed ore, ad interminabili file snodantesi nel cortile del Campo, a cominciare dalle ore 11 antimeridiane e fino all'imbrunire.

Dopo qualche giorno d'internamento fummo interrogati e sottoposti a visita medica da una apposita Commissione. Si alternavano nella visita medica alcuni sanitari tra i quali il Dott. Giulio APOLLONI, esponente del C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale) clandestino, che si prodigò fino all'impossibile per riconoscere agli internati le malattie più impensabili affinché fosse evitata loro la deportazione. E' naturale quindi che i giovani di Tolentino cercassero d'infilarsi in quelle

code che si formavano dinanzi alla sede della Commissione, che li avessero portati al vaglio del Dott. Apolloni perché in tale maniera avrebbero evitato, almeno per un certo periodo, la deportazione. Questa manovra però a me non riuscì. Quando fu il mio turno mi trovai di fronte ad un altro sanitario che mi sottopose ad una minuziosa visita. Debbo onestamente riconoscere però come anche tale medico non sia stato da meno del Dott. Apolloni nell'opera di repressione della deportazione, perché a me, sanissimo, riscontrò una gastrite cronica che infatti, nonostante i vent'anni ormai trascorsi, non mi si è mai manifestata, ma mi salvò in quel momento dalla immediata deportazione e mi permise più tardi di far ritorno a casa.

E' proprio così perché gli internati venivano classificati in tre gruppi: abili per i lavori in Germania; abili per i lavori in Italia; inabili esonerati da qualsiasi lavoro, (questi in realtà pochissimi). Quelli del primo gruppo venivano immediatamente separati dagli altri e, a mezzo di camions, inviati subito in Germania; quelli del secondo gruppo invece, venivano rinviati nelle baracche per poi essere trasferiti, giornalmente, a scaglioni, in alta Italia, destinazione Suzzara, per essere adibiti, si diceva, allo sgombero delle macerie nelle città bombardate dagli angloamericani. Dovevamo sapere poi, a guerra finita, come la città di Suzzara non rappresentasse altro che l'ultima tappa per la deportazione in Germania. I tedeschi, visto l'esiguo numero di quelli che venivano abilitati per i lavori in Germania, avevano deciso di trasferire nei Lager nazisti, i giovani abilitati per i lavori in Italia, e avevano cercato di far restare il fatto segreto per agire di sorpresa e per evitare eventuali possibili fughe.

Fuggire dal Campo di concentramento di Sforzacosta non era infatti cosa impossibile, perché la sorveglianza non era effettivamente eccessiva. I tedeschi infatti, coadiuvati dai fascisti, si limitavano a controllare i recinti e le uscite del Campo, e lo facevano in una forma anche non molto efficace. Ma non avrebbero potuto fare meglio perché, data la vastità del vecchio opificio, sarebbe occorso un numero considerevole di militi, di cui essi più non disponevano.

Tale deficienza organizzativa, aveva permesso a Carlo CATARINELLI di fare sfoggio della sua versatilità verso l'arte comica, e di gironzolare per il cortile indisturbato con una rozza sagoma di fucile ricavata da una tavola, con la quale mira- va, molto spiritosamente, l'abbattimento di aerei. I tedeschi lo lasciarono fare; anzi, per un certo periodo lo guardarono anche divertiti.

"Credevo di essermi conquistato il favore dei teutonici - ci dice ancora oggi il simpatico pasticciere - e di aver trovato col raccontar barzellette il sistema per poter evitare la deportazione ma dovetti ricredermi quando sentìi un milite scandire il mio nome, fra quelli di coloro che doveva partire per l'alta Italia. Mi salvò fortunatamente insieme a qualche altro concittadino, la provvidenziale richiesta di manodopera fatta dal Comune di Tolentino, per la costruzione di una città sotterranea da destinare a rifugio antiaereo".

 

Rividi infatti Catinelli a Tolentino alcuni giorni dopo, alle prese con un verricello, mediante il quale, a mezzo di un unico secchio, tentava di portare in superfice, dall'interrato sotto il palazzo civico, i materiali di escavazione della fantomatica città sotterranea che le autorità repubblichine, esattamente un mese prima, aveno preannunaciato alla cittadinanza.

Chi non ha vissuto quel periodo, si potrebbe porre ora questa domanda: Se la fuga dal campo era cosa facilmente realizzabile, come mai tanti giovani attesero impotenti la deportazione?

Ebbene, fino a che si restò a Sforzacosta, sarebbe stato facile fuggire, come in effetti molti fuggirono. C'è da tener conto però dell'inesperienza di quei giovani, molti dei quali giovanissimi e de loro stato d'animo ad appena poco più di un mese dal tragico eccidio di Montalto. Non c'è da dimenticare poi il fatto che il fronte era ormai vicino ed essi attendevano fiduciosi l'imminente liberazione che avrebbe impedito ai tedeschi di portare a termine, anche per la scarsità dei mezzi di trasporto di cui potevano disporre, la deportazione completa degli internati di Sforzacosta.

Dicevo prima che la disciplina Campo non era veramente eccessiva", debbo chiarire che non era del tutto trascurata. Al comando del Lager si alternavano due marescialli tedeschi, uno dei quali avevamo nominato "Tigre". Durante il suo turno di comando si aggirava molto spesso per il Campo impugnando un moschetto per la canna. Gli internati avevano imparato, purtroppo a propie spese, che era bello non avvicinarlo ad evitare che, senza alcun motivo, il calcio del moschetto finisse sulla loro schiena. Ricordo la violenza prettamente teutonica di questo militare, il quale, scorto un giovane internato, di cui mi sfuggì l'identità, arrampicato sul muricciolo di cinta, gli fu d'un balzo appresso e lo colpì col calcio del moschetto con tanta forza sulla schiena che il malcapitato finì svenuto a terra. Fummo immediatamente costretti a rientrare nelle baracche ed il giovane rimase Iì immobile. Avrei creduto per quel giovane sorte peggiore per tutta la vita se, qualche giorno fa, non fossi venuto a conoscenza, casualmente, come finì l'epi- sodio. Rievocavo il fatto con Antonio ARCANGELI, quando questi mi ha interrotto:"Ero io quello. I miei avevano saputo che sarei stato deportato e vollero venire a Sforzacosta per rivedermi. Con l'aiuto di alcuni amici potei salire sul muricciolo di cinta e comunicare all'esterno con mia madre. Ero appoggiato con i piedi sulle spalle dei miei compagni, quando improvvisamente sentìi mancarmi ogni sostegno, e rimasi penzoloni sul muricciolo. Prima che mi rendessi conto di quanto mi stava accadendo, un colpo tremendo alla schiena mi fece cadere tramortito a terra. Debbo esservi rimasto molto tempo. I miei amici non poterono nemmeno avvicinarsi, né il tedesco si curò affatto di me. Ripresi conoscenza più tardi sul mio pagliericcio. Il dolore mi aveva pressoché immobilizzato. Ancora oggi risento le conseguenze di quel tremendo colpo".

Ogni giorno, intanto, sempre nuovi contingenti di giovani venivano deportati.

"Il pomeriggio del 13 Maggio 1944 ci racconta Alfio COLONNELLI nel corso del giornaliero appello per il trasferimento di internati, sentii il milite addetto pronunciare il mio nome. Subito non mi resi conto di quanto mi attendeva. Che anch'io, non ancora diciottenne, avrei dovuto essere deportato in Germania? Non potevo capacitarmi di tale sorte! Ci fu detto - continua ancora Alfio - che Firenze era stata bombardata e che noi avremmo dovuto provvedere allo sgombero delle macerie.

"Ultimato il carico, il vecchio pullman si mise in marcia verso Tolentino. Eravamo scortati da due fascisti. Giunti all'altezza del ponte di S. Catervo, rivolsi lo sguardo verso le cartiere ove abitavano le mie zie, nella speranza di poter scorgere il viso di un familiare, un volto amico al quale far conoscere la mia deportazione. Invano, l'autobus sfrecciò via ed i miei occhi si riempirono di lacrime. Mi fece coraggio l'amico CIAMBOTTI di S. Severino Marche, dicendomi che quando avremmo attraversato l'appennino i partigiani ci avrebbero liberato. Nei pressi di San Moroto udimmo alcune raffiche di mitra. Il pullman accelerò la corsa e l'attacco dei patrioti venne sventato. Ci ritrovammo a Firenze il mattino successivo; albeggiava. Ci fecero scendere dinanzi ad un vecchio Palazzo sul cui portone spiccava la scritta: CENTRO DI RACCOLTA LAVORATORI VOLONTARI. Fummo avvicinati da un Sacerdote al quale chiedemmo notizie sulla nostra destinazione. "Ma come, non lo sapete? ci rispose - Siete diretti in Germania". Quindi, vedendo il nostro sgomento, aggiunse: "Non vi preoccupate; ho notizie da parte di coloro che vi hanno preceduto e mi risulta che si trovano tutti bene!". La notizia non ci convinse. Pietosa bugia! Come venne la notte, insieme all'amico Ciambotti concertammo la fuga. Ci trovammo quasi inconsapevolmente per le vie di Firenze. Ad un tratto però il mio amico fu assalito da un dubbio: Ci hanno interrogato; hanno registrato il nostro nome; e se faranno delle rappresaglie contro le nostre famiglie? - In men che non si dica fummo di nuovo entro il Centro di Raccolta.

"Dopo 5 giorni, svegliati di buon mattino fummo fatti salire su degli autocarri e, sotto la scorta delle SS. italiane e tedesche, trasferiti a Suzzara ove venimmo rinchiusi nel Durchgangaalager (Campo di raccolta e di passaggio) che i nazisti avevano allestito utilizzando un vecchio campo sportivo. Altri 5 giorni di sosta, quindi, al sesto giorno, fummo incolonnati e condotti alla stazione ferroviaria. Ci fecero salire su carri merci sui quali spiccava la scritta POLIT. Viaggiammo tutto il giorno e la notte successiva. Per tutto il tragitto non ci fu concesso nemmeno di bere un sorso d'acqua. Dovemmo compiere i nostri bisogni corporali nello stes- so vagone. La prima tappa in territorio tedesco fu Erfut. Fu li che ci distribuirono il primo tozzo di pane nero e duro. Ci fecero pernottare in un Lager di prigionieri russi e il giorno successivo, fummo fatti salire sul treno e portati a Niedergrossen, quindi a Hala, in provincia di Jena, dove restammo fino al termine del conflitto. Qui subimmo le sorti e le privazioni che toccarono alle migliaia e migliaia di lavoratori forzati deportati in Germania. Malnutriti, costretti a lavori pesanti e diversi dalle nostre normali attitudini, con orari il sibili. Fummo ridotti a larve umane, non resistettero a tanto sacrificio. Fra i tanti ricorderò il concittadino Vittorio Calvigioni deceduto in una infermeria da campo pochi giorni prima della liberazione" .

La storia di Alfio Colonnelli è simile a quella di centinaia di altri giovani deportati che, trasferiti da Sforzacosta, furono internati nei campi di lavoro in Germania, e costretti a lavorare fino all'estremo limite della salute. Quanti tolentinati non tornarono alle loro case? Forse non lo sapremmo mai. Le cifre ufficiali non sono precise. Soltanto di 6 deportati è stato possibile trascrivere l'atto ufficiale di morte, ma molti, molti di più sono i giovani che dopo la partenza da Sforzacosta non hanno più dato loro notizie.

Sugli avvenimenti che seguirono, ancora a Sforzacosta, il fotografo Enea SANTILLI ci racconta:

"1117 Maggio 1944, aerei angloamericani spezzonarono il Campo. Scopo evidente di tale incursione fu quello di gettare lo scompiglio tra i guardiani del Lager e di provocare la fuga degli internati. Il fine fu perfettamente raggiunto. Gli internati, dopo le prime esplosioni passarono in massa sulle uscite e la fuga dell'intero gruppo di giovani che ancora si trovava nel vecchio tabacchificio si realizzò in un baleno. Purtroppo però l'attacco aereo doveva stroncare diverse vite. Non riuscimmo a sapere quanti giovani perirono, ma sapemmo poi che fra le vittime vi furono ben 4 tolentinati.

"Subito dopo l'incursione aerea le SS. cercarono di correre ai ripari. Organizzarono una vasta azione di rastrellamento e riuscirono a concentrare nuovamente a Sforzacosta qualche centinaio di uomini.

"La completa deportazione di quest'ultimo gruppo di giovani sarebbe stata sicuramente attuata se non fosse intervenuta tempestivamente una persona, carissima ai tolentinati: I'Ing. Willj WEBER, cittadino svizzero, che da qualche anno risiedeva a Tolentino, il quale essendosi prestato a fungere da interprete ai tedeschi con l'intento di portare un

valido aiuto alla sua città elettiva, ebbe la possibilità di venire a conoscere molti particolari sul piano nazista del lavoro forzato e quindi di salvare dalla deportazione un numero consistente di tolentinati.

"L'lng. Weber infatti, facendo viva pressione sulle autorità del Comune di Tolentino, ottenne che queste richiedessero all'Arbeitseinsatzstab, I'assegnazione di un certo numero di uomini da destinare ai lavori di emergenza. La richiesta venne parzialmente accolta e una trentina di giovani poterono uscire dal Lager per essere destinati a tale servizio".

Per comprendere il valore di quanto l'lng. Weber era riuscito a carpire ai tedeschi, è sufficiente ricordare che il lavoro di emergenza fu artificiosamente montato e che, negli ultimi giorni di maggio 1944, era facile incontrare per le vie cittadine, giovani di varie professioni e mestieri (impiegati, fotografi, fonditori, falegnami, meccanici, pasticceri, insegnanti) con un bracciale verde con la scritta "Servizio del Lavoro", goffamente alle prese con picconi e badili oppure intenti spingere, perfino in cinque, una vuota carretta da muratore.

Partito il gruppo degli internati richiesto dal Comune di Tolentino, rimasero nel Campo un centinaio di giovani; forse anche meno. Su quello che avvenne immediatamente dopo ci relaziona il tipografo Mario MARUCCI, uno degli ultimissimi a lasciare il Lager di Sforzacosta:

"I tedeschi ci radunarono nel cortile. Non ci fecero subito presenti le loro intenzioni, ma comprendemmo chiaramente come essi avessero perfettamente capito che la nostra presenza al Campo poteva giustificarsi soltanto col fatto che noi non avevamo risposto all'appello al momento del trasferimento degli internati in Germania. Non poteva essere altrimenti perché secondo gli elenchi in loro possesso, nessuno si sarebbe più potuto trovare a Sforzacosta. Questa era infatti la nostra situazione: ci eravamo salvati dalla deportazione in questo modo ed ora i tedeschi avevano scoperto il nostro gioco. Tale constatazione li fece andare in bestia. Ci insultarono e ci maltrattarono. Poi vedemmo ad un tratto piazzare in punti diversi del cortile, convergenti su noi, quattro mitragliatrici pesanti. Da un momento all'altro avrebbero dato l'ordine di far fuoco. Ci fecero restare un'intera giornata sotto quest'incubo. Non diedero però attuazione alla loro vendetta. Ripensamento in extremis? Intervento di qualcuno? Questo rimarrà per sempre un mistero.

"Sopraggiunta la notte ci rinchiusero, sfiniti per la stanchezza e la paura, in una baracca ove già si trovavano dei prigionieri slavi di cui soltanto allora sapemmo l'esistenza.

"Il giorno successivo i tedeschi fuggirono. Gli Alleati stavano avanzando su tutto il fronte. La guerra sarebbe durata quasi un altro anno, ma per noi sarebbero finite tutte le ansie. Rimasero alla guardia del campo soltanto alcuni fascisti. Nessuna razione viveri ci venne più distribuita. Furono i nostri famigliari a portarci qualche boccone da casa. Dividemmo le nostre cibarie con gli slavi. Questi, per le lunghe privazioni, stavano morendo di fame: erano addirittura affamati.

"Intanto di giorno in giorno il numero dei presenti nel Lager si assottigliava sempre di più. Le fughe si verificavano a ritmo sempre più intenso. Eravamo rimasti uno sparuto gruppo. Bastò un significativo sguardo del fascista di guardia, compiacente quanto timoroso di ciò che poteva accadergli dopo l'arrivo imminente degli Alleati, e anch'io mi trovai solo e libero sulla strada di casa, verso la libertà".

Finiva così, nella nostra provincia, la criminosa attività dell'Arbeitseinsatzstab.

Il grido di "RAUS" del Comandante nazista non sarebbe più riecheggiato nel cortile del Lager di Sforzacosta.

Ai giorni di angoscia, subentrarono momenti sublimi di gioia.

Il vecchio tabacchificio è restato da allora nel più completo abbandono, nella più squallida desolazione, quasi a voler rappresentare la fine di un mito, il tramonto definitivo di una barbarie. Sulle sue mura un'epigrafe marmorea dovrebbe ricordare a tutti le angoscie di coloro che vi furono internati, le lacrime di disperazione dei deportati, il sacrificio di tanti giovani Caduti, affinché, da quelle tristi esperienze, le nuove generazioni possano trarre un severo ammonimento per il futuro, nonché la piena consapevolezza e la più vigorosa energia per dire sempre, e con forza, un: "NO ALLA GUERRA!"

 

 

 

2. NOTIZIE STORICO-POSTALI DEL CAMPO PRIGIONIERI DI GUERRA DI SFORZACOSTA

di Roberto CRUCIANI

Il Campo di Concentramento di SFORZACOSTA, una frazione urbana di Macerata,

aperto nel 1940 in questa località, si trovava in un vecchio opificio all'incrocio delle strade MacerataTolentino - Foligno e la 78 Picena che da Sforzacosta arriva fino ad Ascoli Piceno, con una stazione ferroviaria sulla linea Porto Civitanova - Fabriano e vicino ad un piccolo aeroporto, dove atterrò il Duce con il suo aereo privato in occasione della inaugurazione del Monumento a Filippo Corridoni a Corridonia (anno 1936).

Esso Campo era diviso in tre settori, con diverse baracche e trasformato fino all'8 Settembre 1943 in campo per stranieri, in particolar modo inglesi e prigionieri di guerra. Aveva in dotazione vari bolli postali lineari, COMANDO CAMPO PRIGIONIERI Dl GUERRA N. 53 POSTA MILITARE 3300, su due righe, altri con settori di appartenenza, un bollo tondo con al centro lo stemma sabaudo. Anche per questo Campo erano in dotazione buoni da cent. 50, lire 1, 2,5 e 10, stampati dalla Tipografia Filelfo di Tolentino. Dopo 1'8 Settembre 1943 venivano trasferiti a Sforzacosta gli internati dei campi di Urbisaglia Bonservizi, Pollenza e Treia. Le vicende storiche si susseguivano rapidamente nei mesi seguenti, quando, dal Maggio al Giugno del 1944, 1'8 armata iniziava la liberazione delle Marche fino a Macerata (30 Giugno 1944) e i tedeschi scappavano. Nei giorni convulsi della ritirata tedesca, fuggire dal Campo non era impossibile perché la sorveglianza non era eccessiva. Molti prigionieri e internati venivano però giornalmente spediti, a mezzo ferrovia, a Suzzara, in provincia di Mantova, per poi essere deportati in Germania e finire nei Lager della morte.

Del Campo di smistamento di Suzzara sono note varie lettere spedite in campi di internamento delle Marche, con normale bollo postale, transitate per Roma, con bollo POSTA MILITARE 3300.

Il Campo di Sforzacosta venne bombardato nel Giugno 1944 e successivamente definitivamente chiuso.

 

31/8/1943: Cartolina postale dal Campo prigioniri di guerra n. 53 di Sforzacosta inviata in Gran Bretagna con bollo di censura

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Ultimo aggiornamento: 16/01/10