Donato De Renzis

CAMPOBASSO 10/05/98


LETTERA APERTA ALL'ON. MARCO PANNELLA

Carissimo Marco,

pochi mesi sono trascorsi da quella difficile stagione, la cui asprezza fu
felicemente contrassegnata dalla metafora (o divenuta tale) dell'
interrogativo  "ma perché". Molte, per non dire tutte, delle difficoltà
incontrate dal nostro movimento credo siano tutte dentro la risposta al "ma
perché" e allo scioglimento del suo connotato metaforico. Più di un qualcuno
ha sostenuto, e tra questi Gregory Bateson, che bisogna resistere alla
tentazione, o alla pretesa, di voler sciogliere, o risolvere, razionalmente
il contenuto di quella  cultura, che veste gli abiti e le immagini del
linguaggio delle metafore. Non è prudente, anzi può essere pericolosamente
temeraria, la pretenziosa volontà di ridurre in termini di solare
razionalità, ciò che si presenta con i lineamenti deformati e mediati di un
velo, che opacizza i contorni e rende l'oggetto sfumato e non
identificabile. Meglio il dionisiaco che l'apollineo, perché col pretendere
di tradurre il primo con gli strumenti del secondo, si potrebbero evocare i
riflessi di quelle mostruosità  da noi espulse e espunte e la cui immagine
non saremmo capaci di reggere e sopportare. Ma questo, più propriamente,
dovrebbe valere  per le ritualità delle religioni, le quali tutte, in vario
grado, hanno bisogno delle culture dei tabù per impedire, e forse a ragione
nel loro ambito e per le terapie che esse assicurano alle nevrosi
collettive, di chiudere i diritti della ragione entro confini circoscritti.

LE RAGIONI DEL POSSIBILE CONTRO IL PROBABILE.

Spesso tu ami affermare le ragioni del "possibile contro il probabile." Io
penso che questa contrapposizione contenga qualche elemento di rigidità di
troppo. Il problema sta sempre, come tu insegni, nella contestualizzazione.
Metodologicamente credo che  esistono due modalità del modo d'essere della
probabilità nella vicenda politica e negli accadimenti umani e sociali.
Per la prima di questa la probabilità è la semplice, inerte e inespressiva
forma, che assume lo "status quo". Essa è il sembiante mortale che può
assumere la vita, una sorta di sepolcreto imbiancato, una umanità di anime
morte, deambulanti senza meta o scopo se non quello dell'utile immediato, di
chi folgorato dall'evidenza dell'albero rimane cieco di fronte alla foresta.
In tali circostanze non so quanto possa valere il principio del  "fare ciò
che si può nell'accadere del ciò che deve". Penso che in tali circostanze l'
azione "il fare," pur apparendo come determinato dalla possibilità del
soggetto, sia in realtà fortemente condizionato dalla mera probabilità. E
ciò credo sia dimostrabile, se si considera che in questa formula l'elemento
di volontarismo, in qualche misura finisca per  prevalere sulla riflessione
razionale, l'eccesso di soggettività sul contenuto dell'oggetto, il pathos
della metafora sul logos del discorso.  La letteratura marxista,  ha
rappresentato storicamente e teoricamente questo luogo traducendolo nella
formula della " presenza dell'oggettività dei bisogni nelle masse, ma nella
mancanza della soggettiva consapevolezza di essi". Credo che questo
rappresenti la traduzione ideologica perniciosissima di un contenuto
assiomatico, per il quale non solo esiste la verità, ma di questa qualcuno è
depositario, e suo dovere imperioso sia quella di diffonderla. Non è inutile
a tale riguardo citare le parole di quello che io ritengo essere un grande
radicale di questo secolo, Bertrand Russell. Egli scrive: "Liberale non è
colui il quale dice 'questo è vero'. Liberale è colui che dice ' sono
incline a credere che nelle attuali circostanze questa, probabilmente, sia l
'opinione migliore". Con ciò non intendo assolutamente disconoscere il
valore conoscitivo intrinseco allo statuto del pathos, a vantaggio di un
razionalismo elementare, primitivistico nella sua essenzialità, e forse, più
congruamente, da esprimersi e meglio comunicabile come razionalizzazione
dell'esistente. Credo che la condizione del "poter fare" del soggetto, posta
di fronte e contrapposta alla condizione della necessità e del dovere essere
delle cose, occulti la relazione di contesto che tra di essi si determina,
perché è pur vero che il poter fare del soggetto è sempre posto sotto l'
azione condizionante del dover essere della storia, o delle storie, non solo
come memoria della "cultura e delle culture o della civiltà e delle civiltà"
, ma anche come memoria della vita biologica e etologica. Per concludere su
questo punto credo che se il probabile, come inerte e morta espressione
delle cose, prevale nel corso degli accadimenti, allora la stessa
possibilità, contenuta nel poter fare del soggetto, è vincolata ad essa e da
essa determinato. Nella ricorrenza di un caso siffatto, varrebbe la pena di
aspettare attivamente "tempi migliori". In tale attesa attiva, si
perderebbe sicuramente il lato estetico dell'aspettazione, ma non quello  di
saggezza.

LA SCELTA DEL PROBABILE PER IL POSSIBILE

Una seconda modalità del modo d'essere della probabilità è quella secondo la
quale il probabile tende a coincidere  con il possibile. Questo credo sia il
caso che dovrebbe maggiormente interessarci. Può infatti accadere che il
nostro possibile coincida con il probabile. Quando ciò accade non è detto
che la speranza del possibile si presenti con lo stesso fascino che si
produce nell'aspettazione del luogo "possibile" che non c'è, ma che si
desidera ardentemente che ci fosse. In tal caso nella deformità del
probabile, pur nella meschinità e povertà delle forme che esso  assume, si
può nascondere  una ricchezza  di motivi di vita e di bellezza, per i quali
ben vale la fatica di stringere alleanze con esso, avvicinarsi ad esso per
forzare le porte strette e le resistenze, che angustiano la realizzazione e
l'affermazione di quelle condizioni di libertà che rendono la vita umana
interessante e degna di essere vissuta. Nella irriducibilità della
inconciliabilità dell'opposizione del possibile contro il probabile c'è
qualcosa che ha a che fare più con il sacro che con il profano, più con il
teologico che con il razionale, o ragionevole, senso e misura nella
valutazione dei fatti. Insomma l'inconciliabilità tra la categoria della
possibilità e quella della probabilità e la lotta irriducibile tra di essi,
impedisce il costituirsi di una pratica politica capace di modificare
seriamente lo status quo. La frattura tra possibilità e probabilità a me
pare che si è manifesta in questi due anni, attraverso un nostro modo di
fare politica, che ha oscillato da un lato, tra la proposizione di un olismo
dai forti richiami, delle suggestioni da te evocate con il linguaggio che ti
è proprio e che si è opposto come "possibile speranza", contro il probabile
del polo-ulivo, e dall'altro un riduzionismo  negli obiettivi nella concreta
pratica politica. Un'empirismo troppo ripiegato su stesso, o per meglio dire
divenire tale, non tanto e non solo per i contenuti propri di esso (mi
riferisco ai quesiti referendari della fase della richiesta di incontro con
Confindustria, e della rivoluzione dei sette milioni di partite iva), di per
sé sensati e veri, nella loro intrinseca capacità di concreta attuazione di
riforma liberale, ma  inseguiti e perseguiti con un'ostinazione, che finiva
per allontanarli e allontanarci,  dalla condizione costitutiva di principi e
suggestioni di natura generale e propri del pensiero e dell'opera radicali.
Ho sempre creduto che all'epoca delle battaglie sul divorzio e l'aborto, il
rischio di tale separatezza veniva scongiurato non tanto e non solo per gli
atti politici prodotti dalla intelligenza politica radicale, ma anche perché
l'obbiettivo di per sé era capace di armonizzare, come in una statua greca,
il particolare e il generale, l'esigenza concreta di un cambiamento nelle
condizioni materiali dell'esistenza e la conquista di una condizione più
ampia di cultura e di civiltà "del diritto e dei dritti", come tu ami
felicemente dire.  Ti chiedo : quanto di "probabile" vi era nella battaglia
sul divorzio e sull'aborto? E quanto di questo probabile era tutt'uno con il
possibile in esso contenuto? Quanto di  probabile vi era nelle posizioni
dell'allora PCI,  che si dovette tradurre nella ragioni del possibile, al
punto da doversi, suo malgrado, e sebbene per un tempo limitato,
identificare completamente con esso? E' capitato spesso in questi ultimi due
anni dover sperimentare a fronte della liberazione di una grande quantità di
energia nell'impegno politico, una serie ininterrotta di sconfitte. Tu
spesso hai motivato la scelta degli obiettivi e le proposte di attivazione
politica delle energie liberali e riformatrici con riferimenti a quanto si
fece nelle stagioni di lotta per il divorzio e l'aborto. Se così non è stato
evidentemente deve esservi qualcosa di sbagliato nella connessione tra la
fase che stiamo vivendo e quella della stagione di lotte radicali su
divorzio e aborto. L'analisi dei mutamenti di condizione storica è
sicuramente complessa, ma non tale da impedirne la possibilità Questo non è
il luogo per una trattazione completa di essa. Credo però di poter dire che
la frantumazione ideologica seguita alla caduta del muro di Berlino e la
caduta dei regimi comunisti, ha sicuramente introdotto elementi forti di
de-ideologizzazione della lotta politica in Italia e di scompaginamento
delle etnie politiche di appartenenza. Le  conseguenze  di questo processo
devono ancora manifestarsi in tutta la loro portata. La singolarità e
paradossalità del caso italiano, consiste nel fatto che l'avvio del
cambiamento in senso laico e liberale, si è ammantato degli abiti e dei
fasti del linguaggio e dei costumi dei post comunisti e dei post
democristiani. E' incredibile, ma nessuno avrebbe mai potuto immaginare che
la politica italiana avrebbe assunto le forme del  compromesso storico, in
una condizione storico politica che ne nega alla radice la stessa
possibilità di esistenza. Ma questo non dovrebbe indurre a forme di
pessimismo catastrofista, come sempre più spesso accade,  piuttosto è la
storia che si diverte a prendersi gioco dei 'loro', e forse anche di
qualcuno dei nostri, teoremi ben costruiti, e delle commedie piuttosto
miserande di quanti, nella loro ottusa pigrizia, riescono sempre a trovare
le conferme alle proprie 'tradizioni', al pluralismo delle tante anime da
cui sono vissuti, e  che, inevitabilmente, vengono da lontano e vanno
lontano. Di quanti affaticati viandanti cattolici, comunisti, democristiani,
post-comunisti, post-democristiani, comunisti democratici, verdi comunisti,
socialisti, laburisti, liberali, laici e via narrando, sono popolate le
italiche contrade. Vengono da lontano vanno lontano e però sempre qui
stanno! Forse se Radio Radicale  raccontasse un po' di meno degli approdi di
questi itineranti non sarebbe male. Ma questa è un'altra 'storia'. La storia
mette in scena una commedia e da noi si  assiste alla rappresentazione
scambiandola per una tragedia shakespeariana!
L'estinzione dei fuochi dell'ideologia, costituisce un processo  che  si
concluderà con la consunzione completa dei materiali, che ne hanno
alimentato la furia devastatrice di questi ultimi tre secoli di storia
europea e mondiale. Abbiamo buone ragioni per credere con il pessimismo
dell'intelligenza, che  a dispetto di tutte le previsioni orwelliane  e di
tutti i profeti di apocalissi dei 'valori', lo sviluppo della comunicazione
in tempo reale, l'estrema flessibilità delle tecnologia degli strumenti
della trasmissione di essi, posseggano intrinsecamente meccanismi di rifiuto
di governo autoritario nel controllo dei flussi informativi su scala
planetaria. E' probabile che la grande questione della ricerca di nuove
forme di spiritualità dell'occidente, anticipate dalla filosofia
'demenziale' di un Nietzsche, e posta dai classici della scienza del XX
secolo, da Freud, a Monod nella forma della ridefinizione di una " nuova
alleanza" tra l'uomo e il mondo ( e forse tra l'uomo e dio) e all'interno
delle stesse relazioni tra gli individui e le comunità, oggi intravede i
segni di un possibile e storicamente concreto  avvio.
Chiedo: tutto questo non tocca in una qualche misura anche l'ideologia
radicale'? E' forse scandaloso parlare di una ideologia radicale? Anche
l'esperienza radicale è stata dentro un mondo, in cui i furori ideologici
sembravano non trovare ragioni di risoluzione. A meno di ritenere
metodologicamente che  la storia sia incapace di condizionamenti di un
qualche tipo, rispetto ad alcuni frutti della sua propria gestazione. A me
pare che il pensiero e la pratica radicale, che in larga misura è stato
opera della creatività della tua intelligenza, nella fase di massima
espressione sinergica delle devastazioni dell'ideologia del tempo da cui
stiamo uscendo, ne  abbia rappresentato la diversità, se non al negazione
più forte, che si potesse immaginare. Epperò paradossalmente  pare che oggi
nelle condizioni migliori per la praticabilità e lo sviluppo di quella
pratica e di quel pensiero, in un contesto di progressiva incivilimento
antiideologico, affiorano segni di una 'incomprensibile' stanchezza nel
concepire e nell'esprimere la nostra azione, che in una qualche misura
sembra ideologizzarsi e il segno di questa difficoltà 'ideologica', è
testimoniato dal continuo affiorare di  appelli sempre più caratterizzati in
senso volontaristico. Cosa pensi di questa affermazione di Russell, secondo
la quale "L'essenza della visione liberale non sta in quali opinioni vengono
sostenute, ma nel come vengono sostenute; invece di essere sostenute
dogmaticamente, esse sono sostenute sperimentalmente e con la consapevolezza
che nuovi dati di fatto possono, in qualsiasi momento, portare al loro
abbandono"? Tutte le storie devono essere sottoposte all'usura del tempo
della storia, e quindi anche la nostra. Viviamo in un paese che nella sua
epistemologia genetica deve sempre raccontare le sue storie, come se queste
dovessero godere di uno speciale statuto atemporale e astorico, e forse
antistorico. Si perla e si straparla di tradizioni di anime, di ricchezze di
tradizioni politiche e culturali, e se ne parla così, perché questo e un
paese di gesuiti e di teologi. C'è più gesuitismo e teologia, più
corporativismo individualistico e clericale nel laicismo della politica
nazionale di quanto ve ne sia, e dio sa quanto, nelle sagrestie vaticane. E
noi? Noi siamo fuori di questa particolare epistemologia genetica? Siamo
fuori dell'habitat antropologico italiota? Credo che riguardo ai contenuti
della memoria storica radicale sicuramente è vera la nostra estraneità. Meno
forse riguardo al modo in cui in questi ultimi anni offriamo i nostri
contenuti e lottiamo per l'affermazione di essi. Il rischio di una nostra
ideologizzazione non è riferita ai contenuti delle lotte radicali e
riformatrici, ma alla scelta delle forme dei metodi con cui ne parliamo e
combattiamo. Tali forme hanno il grave limite di espellere aprioristicamente
e sistematicamente il probabile dal possibile. Nel far ciò rischiamo di non
avvertire, con la necessaria consapevolezza, che così si consegue l'
impossibilità della possibilità.

TRA SACRO E PROFANO

Anche per noi si pone un problema di aggiornamento. C'è da essere assai più
ottimisti rispetto al destino di quanto  il pensiero e la pratica radicale
hanno prodotto nella cultura e nel common sense, non solo in Italia, ma
anche in Europa. E' davvero singolare che proprio chi ha aperto spiragli di
luce nella strada della riforma e delle riforme liberali,  rischia oggi di
divenire cieco rispetto a se stesso e  dinanzi a tutto quanto ha contribuito
a determinare.
A volte mi capita di credere che i santi e la santità, che la 'bontà' e l'
amore' dei santi e della santità, siano storicamente stati l'altra faccia
in cui si può convertire la ferocia, la crudeltà e la spietatezza. Esse,
credo che siano le due facce di un unico stato psichico, che ha come
motivazione possente la ricerca di una qualche forma di immortalità. Se il
santo non avesse la certezza dell'immortalità sia pure nella forma della
gloria e dell'esistenza celeste, la quale del resto comprende e compendia,
riassume e risolve, comunque anche quella terrena, difficilmente potrebbe
sostenere il peso del martirio. In fondo nella follia della santità c'è una
intrinseca 'ragionevolezza', che nasce dalla certezza che il sacrificio
estremo della vita, costituisce la condizione necessaria per vita. Nel gesto
estremo c'è una sostanziale convenienza: si sacrifica la parte per l'
ottenimento del tutto, o almeno così si crede. La crudeltà dei malvagi,
nelle forme di più spietata e consumata ferocia può produrre un gusto e un
piacere di vita, nell'orgiastico delirio di una conquistata, mortale
immortalità. C'è una curiosa e interessante notazione psicologica di
Kiekegaard a proposito della malvagità di Nerone. Infatti egli scrive che la
tipologia di Nerone è di quella che sente la vita, e può sentire la vita,
solo facendo il male nei confronti dei propri simili. Leggendo questo luogo
di Kiekegaard mi venne da pensare, che forse se Nerone avesse avuto la
possibilità di sperimentare un contesto capace di favorire la santità,
probabilmente avrebbe soddisfatto la brama di sentirsi vivo, facendo un gran
bene. Ma questo forse non è che un altro modo per esprimere quella grande
verità così a lungo, e paradossalmente, vilipesa soprattutto dai cristiani:
"Chi è senza peccato scagli la prima pietra". E lo sapeva così bene chi
pronunciò quella frase, che la consapevolezza del destino nihilista del
mondo, lo portò a perseguire con la più grande ostinazione la croce. Tant'è
che il buon Nietzsche con ragione potè dire: "l'unico cristiano è morto
sulla croce." E verosimile che la bontà dei santi e la crudeltà dei malvagi,
pur diverse nel modo in cui sono avvertite dalla coscienza individuale
possono avere dunque una origine comune. A volte mi sono domandato e ancora
mi domando quanto nella vita politica, e nella vita di chi più direttamente
di essa si occupa, questi meccanismi giochino un ruolo decisivo nelle psico-
dinamiche dei gruppi organizzati e nel rapporto tra leaderschip e
supporters. Ricordo i dibattiti interni al PCI.
C'era uno stereotipo linguistico dentro il quale chiunque interveniva non
faceva altro che dire, o meglio non dire, tutto ciò che gli altri, dal
relatore in poi, dicevano, o meglio non dicevano. Ricordo quanto fosse
difficile per me capire il senso di quei flatus vocis. Era una liturgia e si
officiavano riti di religiosità lessicale. Non era un linguaggio che usava
metafore. Era qualcosa di più. Era lo stesso linguaggio che si trasmutava in
metafora pura e vuota di un non senso assoluto, la cui unica conseguenza
pratica era il monopolio del potere dei chierici. Oggi poco è mutato. Quale
menzogna è più grande di quella per la quale in politica le parole sono
pietre! Se si prende un discorso di un D'Alema e gli si tolgono gli
aggettivi che consentono l'identificazione del partito di appartenenza, e li
si rimpiazza con quelli di un discorso di un Fini è facile trovare nel
discorso di un D'Alema i contenuti della concezione della politica di un
Fini e viceversa. L'oscurità di quei linguaaggi, o meglio di quell'unico
linguaggio, serve a nascondere una sola cosa, la nevrosi del potere, o per
il potere. E tra noi? V'è tra noi un linguaggio o una molteplicità di
linguaggi. I contenuti di rottura delle lotte radicali nel nostro paese si
sono espressi nell'invenzione di linguaggi, ai quali tu hai dato il più
straordinario contributo. Il problema per noi tutti è quello di impedire che
esso corra il rischio di divenire un flatus vocis e, indipendentemente dalla
nostra intenzionale volontà, che si possa rattrappire nell'impotenza
estremistica dello stereotipo.  Se questo sciaguratamente accadrà, allora
avremo dato noi il contributo più duraturo alla distruzione, non solo di un
patrimonio di lotte, ma di una scuola di cultura politica e di invenzione di
un linguaggio della politica, che lontano dall'essere un prodotto finito, è
suscettibile, nella sua classicità, di sviluppi e invenzioni capaci di
modificare una tradizione autoritaria di oscurità, e oscurantismo, nella
comunicazione politica del nostro paese. L'urgenza dell'umiltà richiede che
le tante intelligenze che pure ci sono vengano messe in condizione di poter
accedere a questo patrimonio. Gli atti veri di umiltà possono venire solo da
chi è capace di uno sguardo più ampio, non solo sull'orizzonte della
'politica', ma della vita stessa.
Credo che forse può esservi luogo per un tipo di santità, che non si può
qualificare secondo  le categorie del bene e del male. Una santità di tipo
francescana, che per certi aspetti sceglie la stupidità piuttosto che l'
intelligenza. Stupidità nel suo contenuto etimologicamente più vero, della
condizione della stupefazione di fronte al mondo e dei suoi accadimenti. Una
stupida, non violenta, e stupita, santità che, come quella di Francesco non
rinuncia all'azione, ma che è capace di comprendere che, nella scelta
generale della rinuncia v'è l'obbligo, questo si, al di là del bene e del
male, come valore caratterizzante questa santità, di  rendere partecipe gli
altri del proprio linguaggio e dei significati che questo esprime scegliendo
e facendosi scegliere, e cogliere in questo il segno e il senso di una più
duratura vittoria.


UNA CONCLUSIONE


Che fare? Di certo non possiamo continuare di sconfitte in sconfitte. Se ciò
accade, di certo non può essere solo per la perfidia, che pure c'è, dell'
avversario. C'è qualcosa che non funzione anche in noi. A quella che può
essere la traccia, che può portare ai motivi  di fondo delle nostre
difficoltà, penso di avervi in una qualche misura accennata.
L'urgenza della fase che stiamo attraversando mi pare che richieda in tempi
rapidissimi di fare tre essenzialissime cose:

1) entrare senza indugi nell'attuale fase referendaria, fornendo i moduli
relativi ai cinque referendum a tutti i compagni che ne fanno richiesta e si
rendono disponibili per la costituzione di tavoli di raccolta;

2) stringere rapporti con la neonata formazione di Democrazia Liberale, e con
quanti altri è possibile, concordando con essi modalità organizzative e
politiche per la compagna referendaria. Ciò può consentire di sventare il
rischio gravissimo che la cultura di criminalità giudiziaria, metabolizzi
perfino la pratica referendaria e alcuni dei temi più alti di libertà e di
giustizia della tradizione di lotte radicali;

3) convocare, subito, in piena campagna referendaria, una assise nazionale
per la costituzione di un soggetto politico, che ponga seriamente il
problema politico dell'unificazione  dell'area radicale, referendaria e
liberale.

E' superfluo osservare che questo è il modo migliore per impedire la
soppressione in corso d'opera di radio radicale.

Non so come accoglierai queste brevi e sommarie note. Di una cosa sono
assolutamente persuaso. Quello che hai fatto per tutti noi, e quello che noi
abbiamo fatto nella modestia dei nostri mezzi, verrà spazzato via dalla
memoria storica, se non si chiude una fase della storia radicale per
riaprirla sul secolo che si affaccia.  Di là del duemila c'è un  villaggio,
divenire sempre più globale. Nel quale il grande problema sarà quello dell'
informazione  libera e responsabile, rispetto  alla sempre più necessaria
diffusione delle conoscenze e alla crescita della saggezza, o delle
saggezze. In questo processo la nostra storia diventa essenziale.
Per questo compito la tua opera è necessaria. Se poi non dovesse essere
così, allora questo esito sarebbe una prova ulteriore del fatto che in
queste nostre cose umane, agiscono leggi implacabili, che per uno strano e
imperscrutabile destino sono destinate tutte alla distruzione. Salvo 'post
festum',  impegnarsi nella ricostruzione razionale dell'accaduto. Lo diceva
qualcuno, mi pare di ricordare Hegel: "Tutto ciò che esiste è degno di
perire". E questo può anche avere il valore di una ineluttabile profezia,
perché la nottola di Minerva continui a spiccare il suo volo crepuscolare.



Con grande affetto e gratitudine

Donato De Renzis