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copertina.jpg (18783 byte)Il Partito che non c'era - on line
Storia di un appuntamento mancato

CAPITOLO 1

5 APRILE: CHE COSA NON C'ERA?

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Tra le "novità" delle elezioni politiche dell'aprile 92 vi è stata la comparsa, o meglio l'invenzione del "partito che non c'è".

Se spesso è difficile definire e qualificare un partito che, bene o male, c'è (e sembra che diventi sempre più difficile) a maggior ragione è difficile definire il " partito che non c'è". Né sembra che gli inventori, ché più di invenzione che di scoperta dovrebbe trattarsi, abbiano contribuito, poi, molto efficacemente a chiarirne i contorni.

D'altra parte la fortuna dei neologismi e delle formule politiche adottati dalla stampa sta assai spesso nella loro ambiguità, nel dire tutto e il contrario di tutto, nel lasciar intendere ciò che piace agli uni e agli altri.

Di queste espressioni è più facile ricordare le circostanze in cui sono venute in uso che non stabilire un esatto significato.

L'espressione "partito che non c'è" è apparsa nel momento di massimo discredito delle forze politiche di governo ed anche di quelle d'opposizione, accomunate con le prime per il meccanismo consociativo e l'omologazione nei metodi lottizzatorii e, soprattutto dalla generalizzazione nella constatazione della corruttela e delle prevaricazioni.

Ma dire che del "partito che non c'è" si è cominciato a parlare nel momento culminante della crisi dei partiti tradizionali non è, poi, del tutto esatto, perché in realtà quando si è profilato lo scioglimento anticipato, se pur di poco, delle Camere, poi intervenuto, gli alibi ed i diversivi rispetto alla protesta ed alla disaffezione nei confronti del sistema politico avevano cominciato a sortire qualche effetto, riducendo la portata o quanto meno l'effetto di tale atteggiamento della pubblica opinione. Anche grazie, si deve dire, al "partito che non c'è", o meglio grazie al fatto che non ci fosse, e ciò per una serie di implicazioni di questa constatazione, apparentemente così aderente ai sentimenti e risentimenti dell'opinione protestataria, ma in realtà invitante ad una rassegnazione pubblica e ad un "realismo", sui quali ha sempre potuto contare il regime democristiano.

Il "partito che non c'è", infatti, evoca quello che gli altri non sono, quello che dovrebbero essere, quello che dovrebbe essere il partito capace e meritevole di batterli, metterli da parte e sostituirsi ad essi nella gestione del potere. Ma sottolinea pure, con assai maggiore immediatezza, il fatto che tale partito non è una entità reale ma solo la proiezione di pii desideri della gente e che anche le forze politiche nuove non Possono aspirare a tale ruolo, anzi, a tal fine, proprio non esistono.

Ad aggravare questo significato negativo, rispetto a prospettive di cambiamento, di questa espressione, ci si sono messi i suoi inventori. nello sforzo di darle concretezza almeno relativa. Il partito che non sarebbe comparso sulla scheda del 5 aprile, sarebbe stato però un partito trasversale, una specie di lista dei "buoni e degli onesti", candidati dei vari Partiti, impegnati ad un'opera di rinnovamento e di purificazione della politica, a contrastare ed avversare la partitocrazia e la corruzione ed a sostenere le riforme . così concepito era ed è ancor istituzionali. E' chiaro che un partito più inesistente di quello che non c'è e basta, non per il carattere trasversale in sé, ma per l'assurdità di una trasversalità offerta all'elettorato che cerchi di realizzare un’alterativa e di fronte al problema, che è poi centrale nella vita politica del nostro paese: la mancanza di una reale alternativa, che si protrae da poco meno di mezzo secolo.

Ridurre il "partito che non c’è " ad un partito che c’è ma non si vede e non si sente perché è all’interno di un po' tutti i partiti (e, guarda caso, all'interno specialmente dei partiti tradizionali, della DC, etc.) significa negare la portata politica del problema, le responsabilità storiche della DC e del sistema politico da essa instaurato e mantenuto, ridurre la questione dell’alterativa e del ricambio ad una mera questione di moralizzazione e di generazioni. In altre parole significa ridurre protesta, sfiducia, domanda di cambiamento ad un problema interno dello stesso sistema di potere, se non addirittura ad una questione metapolitica, per un verso etica e per l'altro di ingegneria costituzionale.

Ecco allora che anche le espressioni, le aspirazioni e, magari, i luoghi comuni del dissenso e della protesta hanno filato per fingere da alibi e da diversivi, attraverso le deformazioni e strumentalizzazioni certamente non casuali. Del resto di alibi e diversivi occorre parlare anche e soprattutto a proposito di riforme istituzionali.

Riducendo un discorso tanto complesso ad una battuta, si avrebbe voglia di dire che la gente vuole cambiare gli istituiti e le si offre di cambiare le istituzioni.

Certamente il fatto che la prospettiva di un mutamento sostanziale dei rapporti di forza tra i partiti politici debba comportare una riforma costituzionale o debba passare attraverso di essa, costituisce la riprova, se ve ne fosse bisogno, che quello esistente nel nostro paese, quello costituito attorn alla Democrazia Cristiana, è un regime nel quale detenzione del potere e poteri dello Stato, partiti ed istituzioni si confondono. Ma è pur vero che questo regime si fonda, in larga misura, su di una deformazione degli istituti costituzionali, sulla sovrapposizione di istituzioni di fatto a quelle della Costituzione scritta. Se questo è vero, allora è dei tutto chimerico pensare che per smantellare le istituzioni di fatto, prime fra tutte la partitocrazia, la lottizzazione, il consociativismo basti cambiare, o semplicemente sia utile e producente, oggi, cambiare le istituzioni già sopraffatte e vanificate. Ma soprattutto è chimerico pensare ad una riforma istituzionale che preceda il sovvertimento dell'attuale egemonia politica e che sia altra cosa che un mezzo per rafforzare e puntellare tale egemonia. Un discorso identico può essere fatto a proposito, delle riforme elettorali. Eppure molte energie e molte parole sono state spese e sprecate nelle elezioni del 5 aprile '92 inseguendo questa chimera.

A questo punto sarebbe del tutto legittima una considerazione che può sembrare un tantino masochistica se fatta da chi scrive queste pagine, su questo soggetto e con questo titolo. Che tanto si discuta di un partito che non c’è, può apparire il colmo del bizantinismo e dell'inconcludenza, una manifestazione di incorreggibile predilezione per l'utopia, una fuga dalla realtà.

Ma la realtà politica non è fatta solo di partiti organizzati, di movimenti definiti, di aspirazioni soddisfatte e di spinte coerenti, né i cambiamenti operano con moto costante ed univoco.

La realtà è fatta anche del vuoto ed a maggior ragione la percezione della realtà comprende anche quella dell'inesistente, senza il quale il reale non ha confine né forma.

Perciò, con tutti i suoi equivoci e contraddizioni ed anche con tutti i suoi inganni, la scoperta del "partito che non c'è" o, se si preferisce, la sua invenzione, hanno rappresentato un fatto positivo, un dato di conoscenza e di riflessione. Quanti oggi e domani dovessero dimenticarlo, dimenticare, magari che milioni di italiani quel partito l'hanno cercato e non hanno accettato facilmente e volentieri che non ci fosse, potrebbero compiere un errore, forse molto grosso.


CR Critica Radicale - 16/03/13 - E-mail: info@eclettico.org