wpe2.jpg (4456 byte)Capitolo 5: Due mondi a confronto
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DUE MONDI A CONFRONTO: LA CHIESA E LA CULTURA RADICALE. IL REFERENDUM SUL DIVORZIO

 


Una battaglia con radici lontane

La lotta per il divorzio ha rappresentato senza dubbio per il Partito Radicale, il momento di massima popolarità, e la definitiva consacrazione della linea politica impersonata dalla figura di Marco Pannella. La battaglia, iniziata dai Radicali dell’Ottocento , è stata vinta contro un’istituzione più potente appoggiata da partiti forti numericamente, e ha rappresentato il momento più importante di questo piccolo partito, da cui ha preso slancio e una buona popolarità fra l’opinione pubblica. Prima di entrare specificamente nello svolgimento dei fatti più recenti, è opportuno partire dalle prime proposte in merito per analizzare con maggiore completezza l’argomento e per capire il clima di continua ostilità in cui si svolse la lotta.

L’introduzione del divorzio nel nostro Paese fino alla comparsa del PR e della LID era sempre stato avversato dalle componenti maggioritarie della società e dai partiti prevalenti. La netta opposizione della chiesa e dei partiti vicini ad essa avevano sempre fatto cadere ogni illusione di poter affrontare legislativamente il problema che aveva radici lontane: già nel 1803 infatti Melchiorre Gioia, sulla base dell’idea che il matrimonio fosse un contratto, elaborò una prima organica enunciazione sull’argomento: "Se l’assenso degli sposi non offre ragionevole argomento di perpetuità; se cessando questo assenso viene a cessare il contratto che ne dipende...è chiaro che il vincolo matrimoniale richiede cangiamento piuttosto che immobilità" . L’audacia di questa analisi si scontrò con lo spirito della legislazione matrimoniale tradizionalista: "In Italia ci si rese subito conto che le tesi oltranziste, propugnanti, lo scioglimento del matrimonio, erano controproducenti per un istituto indesiderato ai più" . Troppo prematuri erano i tempi e la popolazione era ancora fedele al tradizionale concetto di famiglia e lo rimase per molto tempo. Questa realtà entrò in crisi con la diversa ideologia arrivata con le truppe francesi: il codice napoleonico regolava infatti le nozze come qualsiasi altro atto legale e lo liberava da ogni ingerenza ecclesiastica: "la famiglia prospettata dal nuovo codice francese abbandonava il principio della granitica compattezza che lega i vari membri del nucleo, permettendo l’evasione dei coniugi per mezzo del divorzio, ed il mondo giuridico italiano guardò con apprensione a quell’istituto mal conciliabile con la struttura patriarcale della famiglia nostrana...il divorzio dunque trovava ovunque freddissime accoglienze e addirittura la scomunica minacciata dalla Chiesa ai giudici che avessero osato pronunciare sentenze di scioglimento di matrimonio..." . Caduto Napoleone, gli stati preunitari codificarono la indissolubilità del matrimonio, riconsegnandolo di nuovo al diritto canonico. La legge Siccardi del 9 aprile 1850 autorizzò a presentare al Parlamento un progetto di legge teso a regolare il contratto di matrimonio e tra il novembre ed il giugno del 1852 la commissione di legislazione degli stati sardi lavorò alla stesura di un disegno di legge sul matrimonio civile, noto con il nome di progetto Boncompagni. Tale progetto passò alla Camera ma dopo proteste illustri come quelle di Pio IX che si rivolse a Vittorio Emanuele II, fu bocciato al Senato. All’unificazione dell’Italia corrispose la tendenza ad uniformare tra loro le differenti legislazioni, impresa difficile visto che molti stati preunitari si erano ispirati al vecchio codice francese che differiva soprattutto in tema di diritto familiare. Di qui le tante discussioni e difficoltà affrontate dagli estensori del codice nel 1865 per la parte relativa al matrimonio civile. La questione del divorzio venne accantonata, troppo forti le pressioni clericali e pericolose le conseguenze sulla società: "Collocata l’idea del divorzio sulla soglia del matrimonio disse il guardasigilli Pisanelli essa avvelena la santità delle nozze e ne deturpa l’onestà perchè quell’idea si muta nelle mura domestiche in perenne sospetto" . Nei decenni successivi non vi furono sostanziali innovazioni in questo campo anche perchè la situazione politica e l’introduzione del matrimonio civile, consigliarono la massima prudenza. Dopo il 1870 e quindi la presa di Porta Pia, il clima di ostilità e il timore di approfondire la frattura tra laici e cattolici mise in sordina ogni velleità di dibattere l’argomento. Le prime isolate voci in favore del divorzio non mancarono in quegli anni, ma solo tra qualche decennio si potrà parlare di movimento divorzista. Il grosso della popolazione era ancora scettica sulla parola divorzio e per instaurare un primo sommario dibattito fu ritenuto opportuno trasferire le discussioni in sede parlamentare, non tanto per vedere riconosciuto quel diritto, quanto per permettergli di acquistare una prima dimensione politica. L’avvento della sinistra parlamentare nel 1876 con il suo programma di riforma tra cui il diritto si sciogliersi dal vincolo matrimoniale, mise in allarme la Chiesa sempre timorosa di una riforma del genere, che prospettò una "disobbedienza legittima" dei cittadini ad un governo colpevole di inserire nel proprio ordinamento disposizioni contrarie alle legge naturale e divina . Nel maggio 1878 Salvatore Morelli, deputato della Sinistra motivò in Parlamento il primo disegno di legge sull’introduzione del divorzio con argomentazioni valide e di indubbia attualità:

lo sviluppo della personalità della donna in relazione alle mutate condizioni della società ;

le sconnessioni e le disarmonie giuridiche della famiglia;

L’ammissione del divorzio da parte di tutte le nazioni civili

Le ragioni morali e di libertà della coscienza individuale dell’uomo.

Il disegno di legge presentato al Parlamento, che ebbe il merito di imporre all’attenzione generale il problema, prevedeva sei casi di ammissibilità allo scioglimento delle nozze: impotenza sopravvenuta ed incurabile; infedeltà di uno dei due coniugi o prostituzione della moglie accertata da un giudicato; tentato uxoricidio; condanna ai lavori forzati a vita; prodigalità estrema; grave incompatibilità di carattere constatata da contrasti tali da rendere impossibile la convivenza. Per Morelli molteplici ragioni giustificavano la sua proposta di riforma prima fra tutte la necessità che alla famiglia, istituto cristallizzato in formula arcaiche, fosse offerta la possibilità di uscire da situazioni ipocrite . L’ostruzionismo generale e la chiusura anticipata della camera impedirono lo svolgimento della proposta di Morelli che la ripresentò il 19 febbraio 1880. Il problema così a cuore di Morelli non aveva certo dimensioni grandi, ma era pur sempre un problema etico, sociale. In questa seconda proposta i casi di ammissibilità di divorzio erano stati ridotti a due: nel caso di una condanna di uno dei due coniugi ai lavori forzati a vita o nel caso di separazione personale completa, dopo sei anni quando nel caso d esistenza di figli, e dopo tre anni nel caso contrario. Il problema così ostinatamente affrontato da Morelli aveva a conforto le cifre riportate in tabella che non erano numericamente vaste ma erano pur sempre un fattore incidente della vita sociale ed un segnale per intervenire.

La chiesa reagì duramente per voce di Papa Leone XIII: "A causa dei divorzi il patto nuziale è soggetto a mutabilità; si indebolisce l’affetto...è diminuita la dignità della donna che corre pericolo di essere abbandonata dopo che ha servito come strumento di piacere al marito" . Anche questa proposta di Morelli decadde anche a causa della sua improvvisa morte: "Gli insuccessi delle proposte Morelli oltre che negli attacchi della gerarchia vaticana e dei laici conservatori trovavano un motivo non trascurabile nell’indifferenza con cui l’opinione pubblica, ben lontana dal considerare il divorzio tra i suoi interessi più immediati, le aveva accolte..." . Ma l’opera del deputato della Sinistra non rimase inascoltata; infatti il ministro guardasigilli Villa, esponente di spicco del partito democratico di Torino, per poi diventare radicale con futuri incarichi ministeriali, proseguì la battaglia, presentando il 1± febbraio 1881 un disegno di legge, leggermente diverso da Morelli, che ammetteva il divorzio nel caso che uno dei due coniugi fosse incappato in una condanna alla pena capitale o all’ergastolo, o nel caso di separazione personale, dopo cinque anni nel caso di figli, e dopo tre in caso contrario. Il progetto presentava inoltre delle restrizioni a maggior difesa del vincolo, stabilendo che colui per colpa del quale era stata pronunciata la separazione legale non avrebbe potuto chiedere divorzio e che, in caso di divorzio causato da separazione per adulterio, al coniuge colpevole sarebbe stato vietato contrarre matrimonio con il proprio complice. Era infine previsto un "consiglio di famiglia" con il compito di collaborare col giudice nel tentativo di riconciliare i coniugi. Un’ennesima chiusura della sessione parlamentare impedì la prosecuzione dei lavori e fece decadere il progetto Villa. L’ultima parte del secolo confermò il carattere tradizionale della famiglia italiana anche se si riscontrò un primo risveglio di rivendicazioni individuali soprattutto in luoghi sulla soglia della loro industrializzazione. Nei primi mesi del 1883 il ministro Zanardelli fece propria la proposta dell’onorevole Villa, mantenendone intatti i contenuti. La volontà di introduzione dello scioglimento del vincolo matrimoniale si fece più forte in quegli anni, dato che in Francia nel 1884 i divorzisti avevano vinto la loro battaglia riuscendo a fare inserire nuovamente il divorzio nella loro legislazione: "...La vittoria d’oltralpe elettrizzò i divorzisti italiani e la legislazione francese divenne l’inevitabile pietra di paragone su cui misurare quella italiana..." . Nell’ultimo decennio del secolo grazie al maggior impegno degli interessati che posero in atto metodi organizzativi più incisivi, il problema del divorzio cominciò lentamente ad imporsi all’attenzione pubblica. A riprova di ciò, nel maggio del 1891 uscì il primo numero di "Il divorzio" a cura del "Comitato promotore della legge sul divorzio", giornale con sede a Roma, che fu diretto da Camillo De Benedetti ed ebbe tra i propri collaboratori Villa, Turati, Zanardelli ed altre illustri firme. Le idee del giornale furono chiare sin dall’inizio: "Pur occupandosi prima di ogni altro cosa del divorzio cui dedicherà ogni sua forza fino a che ci abbia arriso questa vittoria, la rivista non intende trascurare in seguito le questioni ad esso affini. Il nostro diritto di famiglia ha bisogno di essere modificato..." . La sua breve vita di due anni circa, la discontinuità delle pubblicazioni per mancanza di fondi non impedirono alla rivista di svolgere una importantissima funzione di informazione. Gli antidivorzisti reagirono cercando di convincere l’opinione pubblica attraverso campagne di stampa, che coloro che propugnavano il divorzio erano collegati con i gruppi sovversivi di quel tempo: i socialisti e i massoni. Incuranti di ciò i divorzisti continuarono per la propria strada e grazie alla rivista citata precedentemente, istituirono un premio di 600 lire, raccolte attraverso una sottoscrizione tra i lettori, da assegnare alla migliore monografia sul divorzio. Nel 1891 si svolse a Firenze un congresso, dove dibatterono le opposte fazioni e che ebbe un ottimo risultato sul piano della circolazione delle idee di diversa matrice sull’argomento da far conoscere anche ai non addetti ai lavori: il problema fu così tolto da quel limbo, da quella sovversività in cui era stato posto. I divorzisti consapevoli della difficile realtà sociale preferirono dichiararsi a favore di un divorzio ristretto ai soli casi limite; lo stesso Villa lo confermava: "Il congresso giuridico esprime il voto che, salvo il concetto generale dell’indissolubilità del vincolo, si riconosca per legge la pratica necessità del divorzio nei soli casi nei quali lo stato matrimoniale tra i coniugi sia divenuto moralmente e materialmente impossibile" . Il congresso si concluse positivamente visto che la maggioranza dei partecipanti si espresse favorevolmente alla riforma e il giornale "Il Divorzio" esultò: "Il voto sul divorzio traccia la via diretta che d’ora innanzi si dovrà procedere per condurre in porto questa preziosissima riforma..." . I tempi sembrarono maturi per una nuova presentazione in Parlamento del progetto e proprio Villa presentò un secondo progetto il 12 marzo 1892. Il progetto, fermo restando le limitazioni disposte per il coniuge colpevole, proponeva come cause di scioglimento del matrimonio la condanna all’ergastolo o a una pena di reclusione non minore a vent’anni, e la separazione personale tra i coniugi per cinque anni in presenza dei figli, altrimenti per tre. Nonostante le buone premesse del congresso fiorentino e la campagna condotta dagli organi interessati, la parte antidivorzista vinse ancora una volta e la proposta cadde di nuovo. Il periodo non era dei migliori visto che il primo governo Giolitti vide aprirsi lo scandalo della Banca Romana, e tale problema passò in prim’ordine rispetto a quello del divorzio. Le associazioni cattoliche propugnatrici dell’ideale del matrimonio indissolubile e sempre timorose di vedersi introdurre il divorzio, si organizzarono per campagne contro questo istituto come quella creata dal "Circolo cattolico per gli interessi di Napoli", che per mezzo di incontri in circoli, conferenze, e la ricerca di adesione di personaggi illustri come Caracciolo o Sanseverino, creò un vasto movimento antidivorzista di cui l’Opera dei Congressi fu l’ispiratrice e l’organizzatrice con la creazione di un "Comitato per la difesa del matrimonio" nel marzo 1892. Ma Villa imperterrito ripresentò la sua proposta nella nuova legislatura nel dicembre di quell’anno che finì nuovamente nell’ostruzionismo parlamentare.

Con l’inizio del secolo la questione del divorzio fu subito riproposta all’attenzione generale invitata a soffermarsi sulla situazione denunciata dalle statistiche.

 

TABELLA II SEPARAZIONI PRONUNCIATE

ANNI

N.ro separazioni

Separazioni su 100000 abitanti

1881

717

2,52

1882

630

2,21

1883

597

2,10

1884

479

1,68

1886

596

4,30

1887

570

4,22

1888

620

5,02

1889

591

4,23

1890

591

4,91

1891

628

4,93

1892

652

5,08

1893

680

5,41

1894

683

5,80

1895

728

5,91

 

Statistiche giudiziarie, civili e commerciali, volumi relativi ai singoli anni. In Coletti p.58

Con il nuovo governo guidato da Zanardelli, noto divorzista, i tempi sembravano più propizi e i fautori del divorzio ci riprovarono il 9 marzo 1901, quando presentarono in Parlamento un disegno di legge firmato da Berenini e Borciani e altri 30 deputati. La proposta conteneva delle innovazioni rispetto ai precedenti disegni di legge. Prima di tutto le cause di divorzio risultavano ampliate introducendo accanto all’ergastolo, alla pena per reclusione, ed alla separazione personale, i casi dell’interdizione per infermità mentale, durata oltre tre anni e giudicata insanabile, e l’impotenza manifesta e perpetua, sopravvenuta durante il matrimonio . A rendere maggiormente liberale la proposta c’era l’abolizione del divieto posto all’adultero di sposare l’amante dopo il divorzio. La società, ma soprattutto i laici e i cattolici, si spaccarono di nuovo in due tronconi: il Ministro di Grazia e Giustizia, Cocco Ortu, si dichiarò favorevole al progetto seppur con limitazioni; Leone XIII intervenne il 16 dicembre 1901: "Noi non solo ammoniamo, supplichiamo, per quanto hanno di più caro e di più sacro, tutti coloro dalla cui deliberazione dipende il disegno di legge sul divorzio, che desistano dall’impresa" . Le associazioni cattoliche seguirono compatte l’invito del Papa e lo stesso giorno del proclama del pontefice, l’Opera dei Congressi decise di inviare un telegramma di protesta al ministro guardasigilli con la promessa di una petizione alla Camera per raccogliere firme contro la proposta. Il disegno di legge Berenini non giunse in discussione poichè Zanardelli stesso si impegnò a ripresentare quanto prima un disegno di legge simile: "Sempre nel campo delle giuridiche discipline il mio governo vi proporrà di temperare in armonia col diritto comune di altre nazioni, l’ideale principio di indissolubilità del matrimonio civile" . Il 26 novembre 1902 fu presentato in Parlamento un disegno di legge sul divorzio da parte di Zanardelli e del ministro guardasigilli Cocco Ortu. Rispetto al precedente di Berenini, il progetto era più cauto dato che venivano rispettati i principi del diritto matrimoniale, soprattutto la regola che il matrimonio si scioglie con la morte. Lo scioglimento del matrimonio poteva essere domandato quando la separazione fosse stata pronunciata per adulterio, per volontario abbandono, per sevizie, per condanna all’ergastolo o a pena detentiva superiore ai venti anni. Inoltre la domanda di scioglimento del matrimonio non era ammessa che dopo un anno dal giorno in cui la sentenza di separazione era divenuta irrevocabile, nel caso di assenza di figli, e dopo tre anni in caso contrario. Tale proposta deluse un po’ tutti, anche i socialisti fautori della precedente proposta Berenini, poichè veniva eliminata quell’ampiezza di casi che era stata la novità del progetto. Il 10 dicembre del 1902, il presidente del Comitato romano antidivorzista Persichetti, depositò trionfalmente in parlamento ben tre milioni e mezzo di firme contrarie al divorzio, raccolte dalle associazioni cattoliche che ottennero così un grosso successo. La cifra consistente pesò inevitabilmente sul Parlamento che rinunciò ancora una volta alla riforma che sembrava ormai giunta a destinazione in un momento così favorevole: "In effetti una contingenza tanto propizia con un governo che presentava egli stesso la proposta...non si sarebbe più ripresentata: gli uomini adatti si erano trovati in felice congiuntura per troppo breve tempo..." .

Agli inizi del Novecento la questione del divorzio divenne rilevante sul piano internazionale, infatti in quegli anni parte della giurisprudenza italiana si indirizzò nel senso di riconoscere oltre al divorzio dello straniero nato, quello del "naturalizzato", cioè, degli italiani passati temporaneamente alla cittadinanza straniera per eludere il diritto matrimoniale nazionale. In sostanza venivano rese esecutive in Italia le sentenze di divorzio pronunciate all’estero. La questione esigeva però una normativa internazionale e il 12 giugno 1902 l’Italia firmò a L’Aia una convenzione europea, allo scopo di regolare i conflitti di legge e di giurisdizione in materia di divorzio e di separazione personale. La convenzione obbligava i magistrati degli stati firmatari di riconoscere le sentenze di divorzio pronunciate negli stati stessi, e indicava come soluzione per dirimere la competenza, la legge nazionale del soggetto interessato. I cittadini italiani dunque in quanto tali non avrebbero potuto farsi riconoscere nel loro paese eventuali sentenze di divorzio, visto che l’ordinamento italiano precludeva tale istituto. La convenzione fu approvata dal parlamento, ma l’inganno era dietro l’angolo: gli interessati infatti, ottenuta la cittadinanza straniera, potevano divorziare all’estero (venivano scelte le nazioni più vicine e dove la procedura di divorzio fosse rapida), far delibare la sentenza di divorzio dalla competente Corte d’appello italiana, registrare la sentenza dello stato civile italiano ed infine riacquistare la cittadinanza originaria. Nell’epoca giolittiana la questione fu dibattuta ma spesso fu messa in secondo piano da altre emergenze sociali come gli scioperi, e lo stesso statista di Dronero, mantenne una posizione ambigua sull’argomento accontentando sia i divorzisti che gli antidivorzisti: " Su tale questione...non trovo assolutamente di male nel divorzio...credo che sia un istituto il quale, come esiste in paesi altamente civili, potrebbe anche essere adottato da noi...ma questa è una opinione mia personale e la Camera passata non era di questa opinione...se verrà la proposta la discuteremo e la Camera voterà" . Ma la sua volontà di non forzare troppo la situazione fu evidente. Giolitti stesso infatti durante la discussione dell’indirizzo di risposta al discorso della Corona il 13 dicembre del 1904, replicò con ironia a chi lo aveva criticato per il mancato cenno al divorzio nel discorso della Corona: "...Tutti ricordano che nella Camera passata questa questione era stata...messa a tacere...Durante le elezioni poi io non ricordo che nei programmi di quei partiti ci fosse il divorzio" . Ogni minimo proposito di divorzio continuò ad essere ritenuto dagli ambienti conservatori ed ecclesiastici blasfemo, sovvertitore dell’ordine sociale e soprattutto degli ideali clericali. Nelle successive tornate parlamentari le discussioni riguardarono essenzialmente altri problemi, ma appena vennero affrontati i problemi fra Stato e Chiesa ecco che il problema divorzio rivenne a galla. Il 7 febbraio 1914 il deputato repubblicano Comandini presentò un nuovo progetto di legge. Tale proposta ammetteva lo scioglimento del matrimonio nel caso che uno dei due coniugi fosse stato condannato all’ergastolo, o alla reclusione non inferiore ai dieci anni, nel caso di infermità mentale di oltre tre anni, e nel caso di separazione personale. Il progetto però decadde subito, visto che il momento fu dei meno propizi: infatti per il Patto Gentiloni che avevano stipulato liberali e cattolici ormai liberi dal "Non Expedit", molti liberali per avere l’appoggio dei cattolici alle elezioni avevano fatto un accordo secondo cui si impegnavano a non sostenere in Parlamento provvedimenti sgraditi al mondo clericale, e tra questi c’era il divorzio . Ma la motivazione non fu solo quella, concorsero certamente altri fattori: in primis il risultato nell’ottobre 1913 alle prime elezioni a suffragio universale, del Partito Socialista, favorevole al divorzio, che passò da 340000 voti e 41 deputati del 1909 a circa 1 milione di voti e 53 deputati, e che mise quindi in allarme la classe politica, che dovette fare i conti anche con una borghesia preoccupata e con numerosi scioperi fra cui la famosa "Settimana rossa ". Quindi è ben facile capire come fosse difficile in una complicatissima situazione sociale approvare una questione così scottante come il divorzio. Il timore della classe politica dimostrato in più di una occasione, fu proprio quello di non volere prendere seriamente in considerazione il problema, per evitare strappi con il potente mondo ecclesiastico e causare rivolgimenti sociali imprevedibili e pericolosi . Ma tutte le proposte fino a qui presentate si basarono tutte sui concetti di pace sociale, e sulla necessità che occorresse risollevare la dignità degli sposi e specie della donna, sul fatto che la coscienza cattolica era comunque tutelata perchè non si imponeva a nessuna di divorziare e sulla riflessione che senza dubbio la stabilità della famiglia è un bene, ma non può essere forzatamente imposta: " Morelli, Villa...insistono tutti sulla considerazione che, se si è acquisita la certezza che un matrimonio non può più raggiungere i suoi fini, non consentirne lo scioglimento diventa un avvilimento dell’istituto e della idea morale che lo sostiene e sulla considerazione che la separazione è un provvedimento provvisorio per sua natura, ma non può essere fine a sè stessa..." . Furono tutte proposte mirate a che il legislatore non potesse ispirarsi alle considerazioni di una sola religione (quella cattolica) e a sanare le situazioni di tanti infelici, per i quali la legge che a forza voleva mantenere un vincolo formalistico, non più sorretto dall’amore, diveniva uno strumento di fredda vessazione. Argomentazioni queste che seppur di molti anni addietro erano già presenti nella società italiana, e furono valide e attuali anche ai tempi del Partito Radicale: "é la prova che la storia, come la natura, nella sua evoluzione non può fare dei salti: i problemi aggirati o accantonati tornano sempre fuori prima o poi" . Terminato il conflitto mondiale restarono le ripercussioni nella famiglia, compagine sociale particolarmente provata dalla guerra. Divenne allora prioritaria una legge che ovviasse radicalmente a questa situazione. I divorzisti ci riprovarono con il nono progetto di legge presentato il 6 febbraio del 1920 dai deputati Marangoni e Lazzari. Secondo il progetto era ammesso lo scioglimento del matrimonio nel solo caso in cui esso non rispondesse più al suo scopo fisiologico e sociale della procreazione, per l’avvenuta irrevocabile separazione dei due coniugi e dopo due anni dal passato in giudicato della sentenza relativa; se esistevano figli il termine era prolungato per tre anni. A queste cause di separazione ve ne erano aggiunte anche altre: l’impotenza manifesta e perpetua sopravvenuta durante il matrimonio, l’infermità mentale riconosciuta inguaribile, condanna a pena per più di cinque anni, e infine una malattia trasmissibile dichiarata inguaribile. Inoltre era possibile chiedere il divorzio chi scopriva l’adulterio di uno dei due coniugi durante l’assenza dell’altro per motivi umanitari, sociali e in occasioni di guerre. La Camera si pronunciò favorevole al progetto che fu appoggiato da un blocco divorzista formato in prevalenza da socialisti e radicali. Il mondo cattolico reagì subito muovendo circoli, parrocchie e soprattutto il recente Partito Popolare di Don Sturzo. Ma anche questo progetto decadde per anticipata chiusura della sessione parlamentare ai primi del 1921: "Val la pena di ricordare che nelle province annesse (Venezia Giulia, Trentino e Alto Adige, Fiume e Zara) il divorzio continuò ad essere ammesso nei limiti previsti dalle legislazioni vigenti (con esclusione quindi per i cattolici, secondo il paragrafo 111 del codice civile asburgico del 1811) fino al 1929 (a Fiume fino al 1924) e che il ritorno all’indissolubilità del matrimonio venne considerato in quelle regioni come un vero regresso, tanto più che esso si estendeva anche ai matrimoni contratti prima dell’entrata in vigore della legge italiana" .

Dopo il 1920 il tema non fu più dibattuto. La sua evoluzione fu inevitabilmente arrestata dall’avvento del fascismo e per la sua conseguente attitudine e vicinanza con il mondo clericale consacrata nei Patti Lateranensi del 1929: " Il matrimonio concordatario, uno dei frutti più succulenti di quegli accordi, ricostituì l’antico predominio della Chiesa nel diritto familiare italiano..." . La famiglia ritenuta sacra dal credo fascista, non poteva essere insidiata da pericolose riforme che avrebbero intaccato il fattore base del fascismo: il principio di autorità familiare del pater familias . Le più piccole proposte di riforma dell’istituto matrimoniale, vennero subito bloccate da Mussolini e la Chiesa non potè non rallegrarsene: " Fortunatamente per adesso questa breccia laica non si aprirà, grazie all’opposizione recisa dell’On. Mussolini" . In materia di diritto familiare il fascismo non fece altro che concretizzare le impostazioni maturate precedentemente nel clima ideologico del nazionalismo e coerentemente con questa direttiva il regio decreto del 20 marzo 1924 estese a Fiume (al Venezia Giulia nel 1929) le disposizioni del codice civile italiano sul matrimonio." Le sentenze di divorzio fiumane, nonostante fossero pronunciate in nome di Sua maestà Vittorio Emanuele III, erano considerate straniere poichè l’occupazione bellica non aveva tolto a Fiume, giuridicamente, la qualifica di territorio estero: potevano quindi essere rese esecutive in Italia solo a norma della Convenzione dell’Aia. Ma se non era difficile la procedura "fraudolenta " che conosciamo in un vero e proprio stato estero, figurarsi in una regione annessa all’Italia..." . Così il regime fascista sia con gli accordi con la Chiesa che con le campagne sulla famiglia e sul matrimonio riuscì a mettere in silenzio i divorzisti anche se proprio in questi anni fu registrato un notevole balzo in avanti sia nel numero delle separazioni che negli annullamenti .

La contraddizione fra una severa realtà giuridica e una ben diversa realtà di fatto, influì inevitabilmente sull’istituto familiare uscito malconcio dal conflitto mondiale, e l’esigenza di mettere una legge anche per un matrimonio fallito fu sempre più consistente . Di divorzio si riparlò subito nel secondo dopoguerra a Trieste, dove l’avvocato Bruno Attilio Latini predispose il 16 settembre del 1946 un progetto su incarico del Governo militare alleato, sollecitato dai cittadini della Venezia Giulia. Il problema dell’indissolubilità del matrimonio fu affrontato dalla Costituente, con la prima sottocommissione sugli articoli della famiglia, presieduta da Tupini. La stessa sottocommissione era composta da Amadei, Basso, Cevelotto, Corsanego, De Vita, Dossetti, Cotelli, Jotti, La Pira, Lucifero, Mancini, Marchesi, Mastroianni, Merlin, Moro, Togliatti. I divorzisti seguirono con vive speranze i lavori di quell’aprile del 1947 convinti che dopo il crollo del Fascismo non ci fosse, ad eccezione del mondo clericale, nessun ostacolo. Ma coloro che volevano veramente il divorzio erano pochi e sopraffatti dalla maggioranza che voleva anzi veder costituzionalizzato il principio dell’indissolubilità. Durante i lavori della sottocommissione all’articolo 29 che trattava proprio sullo scioglimento del matrimonio, si crearono così due posizioni: da un lato grosso modo la maggioranza cattolica che voleva sancire anche costituzionalmente l’indissolubilità, precludendo così la via al divorzio in modo definitivo; dall’altro le sinistre che, pur ritenendo prematura l’Italia per una riforma del genere, non intendevano porre vincoli all’attività del legislatore che avrebbe agito semmai per casi di eccezionalità. Gli antidivorzisti non volevano lasciare un argomento così scottante alla discrezionalità del legislatore: "Non si può non tacere su un tale punto fondamentale perchè in tal modo si lascerebbe aperta la via al legislatore di poter indifferentemente pronunciarsi per la indissolubilità del matrimonio o per il divorzio". Di diverso avviso l’ordine del giorno di Togliatti: "La prima sottocommissione... non ritiene opportuno parlare di questa questione nel testo costituzionale" . Quest’ordine venne respinto dalla commissione con sette voti contrari, sei favorevoli e due astenuti e al suo posto riscontrò maggior consenso con nove voti favorevoli, due contrari e tre astenuti, una parte dell’articolo in base alla formulazione di La Pira, secondo la quale la legge regolava la condizione giuridica dei coniugi allo scopo di garantire l’indissolubilità del matrimonio e l’unità della famiglia. Il testo proposto in Assemblea sanciva espressamente che la Repubblica riconosceva i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio indissolubile. Quest’ultimo termine suscitò l’opposizione di molti deputati laici, che proposero un emendamento che sopprimeva il termine incriminato. L’emendamento presentato dall’On Grilli fu approvato il 23 aprile con 194 voti contro 191: il termine indissolubile fu così soppresso. Inevitabile la reazione del mondo cattolico: "Oggi, dopo la soppressione dell’articolo 29 della Costituzione del termine "indissolubilità", si potrebbe introdurre in Italia il divorzio senza violare i Patti Lateranensi?...il divorzio è manifestamente contrario allo spirito..." . Si arrivò così alla Costituzione Repubblicana che quindi non previde espressamente il divorzio ma non sancì nemmeno l’indissolubilità lasciando irrisolto il problema.

Presso il parlamento della neonata Repubblica Italiana il 26 ottobre 1954, il deputato socialista Renato Sansone, presentò alla Camera un progetto di legge che prevedeva lo scioglimento del matrimonio nel caso di una condanna del coniuge a più di quindici anni di reclusione, di uxoricidio, di abbandono del tetto coniugale per un periodo ininterrotto non inferiore ai quindici anni, o in caso di separazione consensuale e di fatto tra i coniugi. Inoltre era possibile sciogliere il vincolo per malattia mentale inguaribile o se l’altro coniuge quale cittadino straniero avesse conseguito all’estero lo scioglimento del matrimonio contratto in Italia. L’iniziativa di Sansone fu spalleggiata dal settimanale l’Europeo, che denunciò la situazione illegale di tante famiglie italiane desiderose di un riconoscimento giuridico. Anche altri giornali come "La Stampa" di Torino con inchieste documentate, dimostrò che le separazioni in Italia raggiungevano ogni anno la cifra di 67 mila e che nella sola città di Milano vivevano circa 80 mila coppie di illegali . La proposta di Sansone arrivò in un momento in cui una parte della popolazione italiana sembrava dimostrare una maggiore maturità sull’argomento; un sondaggio della DOXA infatti dimostrò che se nel ‘48 le persone a favore del divorzio erano il 15%, nel 53 erano diventate il 21% . Dopo decenni di proposte respinte sembrava raggiunto perlomeno il traguardo di far partecipe buona parte della popolazione su un argomento fino ad allora competenza di politici e parlamentari. Sansone per ovviare alle inevitabili polemiche con i cattolici, preferì, probabilmente sbagliando, non politicizzare la riforma che apparve blanda e senza forza, e inoltre cercò di apparire come un prudente conciliatore fra i due opposti schieramenti da far convergere sul terreno di una riforma necessaria: "Eppure non è da escludere che al suo disegno di legge abbia nociuto proprio l’eccessiva prudenza, il non aver voluto imporre chiaramente la questione...Dieci anni più tardi, con una situazione oggettiva non molto cambiata, sarà proprio la politicizzazione del problema, la trasformazione del gruppo divorzista in nucleo di continua pressione a livello partitico e parlamentare a permettere risultati concreti" . Il progetto di legge dopo una prima prevedibile sconfitta parlamentare, vista la pressione della DC e del Vaticano, fu ripresentato dallo stesso Sansone e da Giuliana Nenni il 12 giugno 1958, ma anche questa volta la fine della legislatura pose fine a ogni speranza. Maggior successo ebbe, come vedremo, l’esito di quest’annosa questione, condotta e risolta positivamente in primis dal Partito Radicale che sin già dalla sua nascita aveva proprio fra i temi principali il divorzio: "Il merito deve essere riconosciuto al Partito Radicale che individuava nell’iniziativa divorzista i caratteri e la natura di una grande battaglia popolare e promuoveva la formazione di una lega (la LID) sostenuta dall’adesione di migliaia di cittadini...ponendo in essere una larga azione volta a sostenere dal basso l’iniziativa al livello parlamentare. Soprattutto venivano indicati con esattezza gli avversari da battere per realizzare la voluta riforma: la Chiesa cattolica e la Democrazia Cristiana" . Il PR, intraprese questa battaglia tra la sfiducia generale soprattutto dei partiti di sinistra , negli anni in cui esplodeva la contestazione giovanile in tutta Europa e la sinistra sembrava ancora ancorata a vecchi schemi, e fece del divorzio e del dibattito intorno ad esso una dimensione nuova: non fu più visto come lusso borghese come fino ad allora era considerato, ma come un tragica realtà riguardante tante famiglie meno abbienti. L’avvio del centrosinistra tra i vari propositi di riforma che esso conteneva sembrò poter raggiungere l’obiettivo. Il 1± ottobre 1965 il deputato socialista Loris Fortuna presentò un progetto che prevedeva i casi di scioglimento del matrimonio; il divorzio era ammesso: 1) Se l’altro coniuge sia stato condannato con una o più sentenze definitive: a) all’ergastolo o a cinque o più anni di reclusione per uno o più delitti non colposi; b) a qualsiasi pena detentiva per incesto, delitti sessuali commessi a danno dei discendenti, istigazione o costrizione della moglie o delle figlie alla prostituzione, sfruttamento o favoreggiamento di tale prostituzione; c) a pena detentiva non inferiore a un anno per maltrattamenti o per qualsiasi altro reato commesso in danno del coniuge o dei discendenti; 2) se l’altro coniuge sia stato prosciolto per totale infermità di mente da uno dei reati di cui ai paragrafi b) e c) del numero 1 del presente articolo; 3) se l’altro coniuge abbia abbandonato il tetto coniugale per un periodo ininterrotto non inferiore a cinque anni o se vi sia stata tra i coniugi ininterrotta separazione legale o di fatto per non meno di cinque anni; 4) se l’altro coniuge affetto da malattia mentale si trova degente in ospedale psichiatrico o altro luogo di cura da non meno di cinque anni; 5) se l’altro coniuge, quale cittadino straniero, abbia ottenuto all’estero annullamento o scioglimento del matrimonio contratto con il coniuge italiano. Il Partito Radicale di Pannella da sempre propugnatore del divorzio, iniziò questa battaglia dando vita, nel gennaio del 1966, insieme a molti altri divorzisti, alla Lega Italiana per l’istituzione del Divorzio (LID) usando i metodi di lotta del PR: azioni dirette, grandi raduni di piazza, campagne di stampa su giornaletti popolari. Un’influenza importante la ebbe il settimanale "ABC", che sposò subito la causa divorzista . Questo organismo politico, federato proprio al partito di Pannella, costituirà un motore propulsore della battaglia divorzista, diventando un movimento di massa e di iniziativa politica: "La LID trasformerà i fuorilegge del matrimonio da individui isolati in massa compatta...che quella della LID fosse un esigenza sentita, che la base dei fuorilegge del matrimonio avvertisse la necessità di agire per uscire dalla sua penosa condizione, lo dimostrò l’entusiasmo con cui fu accolta l’iniziativa e l’immediato proliferare del movimento in ogni provincia" .

L’iniziativa radicale trovò subito consensi negli strati popolari: la prima manifestazione divorzista di massa del 13 novembre 1966, ebbe la partecipazione a Piazza del Popolo a Roma di 20000 persone. Ma anche alcuni settori della stampa si interessarono al nuovo organismo, in primis settimanali come L’Espresso, che dedicò in prima pagina un servizio sull’argomento titolandolo: "Arriva il divorzio" .

Il 12 dicembre 1965, l’associazione radicale romana tenne un dibattito al teatro Eliseo a cui presero parte il radicale Mellini, l’onorevole Miglioni (DC), Luciana Castellina (PCI), e Fortuna (PSI) che aveva presentato il disegno di legge sul divorzio (Il 5± presentato nel Parlamento repubblicano). La relazione di Mellini non lasciava dubbi: "Noi radicali siamo convinti che nel quadro del rinnovamento e dell’unità della sinistra italiana il problema di un diverso atteggiamento in ordine a questioni come il divorzio ha un importanza di primo piano" . Da questo dibattito emerse la tattica per giungere a questo obiettivo: " Un’azione divorzista autonoma vivace, organizzata, politicamente bene orientata, diretta a far lievitare nelle masse sentimenti e convincimenti ormai diffusi...a stimolare e confortare l’azione delle forze politiche decise a sostenere la causa divorzista, è oggi possibile e si profila efficace".

In questo dibattito la Castellina come molti altri del PCI furono contrari a una ipotesi del genere: "Il divorzio non interessa le masse, è roba buona per attrici e finanzieri, le forze popolari hanno ben altro a cui pensare" . I radicali convinti del fatto che il Paese fosse più maturo della sua classe dirigente andarono avanti. La LID, di cui era segretario Marco Pannella, iniziò la sua impresa organizzandosi in maniera capillare e compatta, e il segno della sua efficienza lo offrì nel novembre del 1966 alla manifestazione nazionale a Piazza del Popolo a Roma in cui presero parte i rappresentanti di tutti i partiti laici, e il riunire in pochi mesi di lavoro tutto lo schieramento laico in un argomento fu un grande risultato per la Lega. Sempre nello stesso mese iniziò le sue pubblicazioni "Battaglia Divorzista", organo della LID . Il giornale della LID ingaggiò violente polemiche contro le manovre ostruzionistiche che tentarono di insabbiare la proposta Fortuna che rappresentava per i divorzisti l’unica speranza concreta. Gli antidivorzisti infatti rappresentati oltre che dalla DC da consistenti settori del PCI, erano in allarme ed erano riusciti a far rinviare alla commissione affari costituzionali la proposta Fortuna sollevando l’eccezione di incostituzionalità. Quando il 19 gennaio del 1967 la stessa commissione si pronunciò a favore della proposta Fortuna respingendo così il tentativo democristiano, lo stesso Papa Paolo VI intervenne direttamente nella polemica esprimendo "sorpresa e dispiacere" per l’operato del Parlamento italiano. Immediatamente a livello politico le parti cattoliche rinnovarono il loro impegno a insabbiare la proposta e la conseguente discussione parlamentare, ma la Commissione giustizia votando i primi punti della proposta ammise la possibilità del principio del divorzio in Italia, anche per i matrimoni concordatari, e in questo fu innegabile il merito della LID che per mezzo di petizioni popolari riuscì a mettere sotto pressione le istituzioni politiche. Quando si tenne il primo congresso della LID a Roma nel dicembre del 1967, il movimento divorzista constatò la sua crescita nell’opinione pubblica e nel Parlamento. Il corso del progetto Fortuna fu però interrotto per la fine della legislatura, ma il 5 giugno del 1968 il disegno di legge fu ripresentato per iniziativa di 70 parlamentari.

La V legislatura in cui si era creata in Parlamento una maggioranza divorzista, vide il primo progetto di legge sul divorzio approvato. Infatti decaduto il primo disegno di legge, Fortuna con il liberale Baslini ci riprovarono con alcune modifiche strutturali . I consensi dell’opinione pubblica diventarono nel frattempo più ampi; un’indagine infatti condotta dalla Doxa nell’aprile del 1968 evidenziò che alla domanda "sarebbe giusta o sbagliata una legge sul divorzio nel caso di separazione per colpa di uno dei due coniugi", il 56% rispose "giusta", il 32% "sbagliata" .Nell’aprile del 1969 la Commissione Giustizia approvò a larga maggioranza il progetto FortunaBaslini che potè così affrontare il voto alla Camera: "Mai prima d’ora una proposta divorzista si era spinta così avanti..." . Il dibattito in aula andò per le lunghe a causa dell’ostruzionismo della DC e MSI, ma le proteste pubbliche di Pannella e dei suoi fecero presa sull’opinione pubblica. La decisione infatti del leader radicale di iniziare uno sciopero della fame davanti a Montecitorio costrinse i politici a non evitare il problema. Il mondo clericale in profondo allarme organizzò varie manifestazioni fra cui la "veglia di preghiera" contro il divorzio organizzata dalle parrocchie di Roma la sera prima dell’approvazione della proposta. Venerdì 28 nov. 1969 la Camera approvò con 325 voti a favore e 283 contrari. Dopo la votazione positiva alla Camera restò lo scoglio del Senato, dove i democristiani dettero battaglia sollevando l’eccezione di incostituzionalità sull’estensione del divorzio ai matrimoni concordatari, tentando così di rinviare la discussione. Le crisi politiche a ripetizione nel corso del 1970, con la caduta a marzo del II governo Rumor e la costituzione del Governo Colombo, ritardarono ulteriormente l’approvazione. La LID non cessò un attimo di incalzare il Parlamento. Scrivendo a Ferruccio Parri che rimproverò ai divorzisti comportamenti eccessivamente aggressivi, Pannella a fine agosto rispose: "...Bastava che tacessimo per qualche settimana, che il divorzio sembrava d’un tratto divenire storia dell’altro mondo...Non più un comizio, un passo avanti, un cenno; sembravano Penelope...Per quattro anni e mezzo abbiamo seguito, giorno per giorno, l’ininterrotto itinerario parlamentare della legge Fortuna...E’ stata un’attenzione, una riflessione collettiva, popolare: a centinaia di migliaia di copie, ogni volta, i nostri bollettini illustravano questa realtà per iniziati...ne facevamo partecipi e responsabili masse sempre più estese di cittadini spesso provenienti dai ceti più lontani...o più esclusi dalla cultura dominante" . Dal settembre al novembre del 1970 il tormentato itinerario della legge arrivò in porto. Il 9 ottobre la legge fu modificata da emendamenti restrittivi contrattati con la DC dallo schieramento divorzista con la mediazione del Senatore Leone per permetterne l’approvazione al Senato. La legge fu così ratificata il 1± dicembre del 1970 . I divorzisti poterono finalmente esultare per questa vittoria: Pannella segretario della LID dichiarò: "Esultiamo per questa vittoria della democrazia, del laicismo anticlericale, delle essenziali e migliori tensioni civili e religiose del nostro paese. Sappiamo anche che questo non è che un inizio...La lotta continua per edificare una società più umana e più giusta. La politica dei diritti civili esce potenziata da questa prova" . Ma le parti cattoliche non si dettero per vinte, e approfittando dell’approvazione nel maggio 1970 della legge istitutiva del referendum abrogativo di iniziativa popolare, che esse stesse avevano caldeggiato, si mossero subito per raccogliere firme proprio per una consultazione popolare abrogativa sul divorzio.


Cronaca di un referendum

L’approvazione del divorzio rappresentò un fatto unico nella storia dell’Italia repubblicana, poichè la riforma fu promossa attraverso un’azione che si era configurata principalmente come extraparlamentare e soprattutto perchè rappresentò per la prima volta una sconfitta della DC per merito di un fronte laico, unito dal PCI al PLI, su un terreno che aveva sempre difeso strenuamente. Ma il blocco laico che faticosamente si era venuto a creare si sfaldò quasi subito: infatti mentre per il PR era solo l’inizio di una battaglia, per gli altri partiti laici lo strappo con la DC indubbiamente forte li indusse a normalizzare i rapporti: "In prima linea i comunisti che per bocca di Nilde Jotti già in fase di dichiarazione del divorzio, aveva espresso l’auspicio che si superassero i contrasti e si ritrovasse un’unità con il mondo cattolico sul terreno della riforma del diritto di famiglia e dei rapporti fra Stato e Chiesa da regolarsi attraverso la revisione bilaterale del Concordato" .

Anche il segretario del PSI, Francesco De Martino, si pronunziò in questo senso lodando inoltre, con il suo partito pienamente d’accordo, il fatto che le forze cattoliche non avessero puntato sull’esasperazione del contrasto e sulla guerra di religione e auspicando che la riforma del divorzio fosse servita per un nuovo capitolo fra i rapporti fra Stato e Chiesa. .

Comunisti e socialisti quindi, ma anche repubblicani e liberali, considerarono il divorzio come una mina vagante nella vita politica e nei rapporti di collaborazione con la DC. Lo stesso Berlinguer definì la lotta divorzista come "esasperazioni settarie, irresponsabili provocazioni di gruppi anticlericali...I comunisti concludeva un fondo su "L’Unità" non si faranno distogliere dalla necessità di portare avanti, con la lotta, una politica di unità proletaria e democratica, popolare e nazionale, la politica cioè che ha sancito e promosso l’ingresso alla base del nostro organismo statale, e che domani potrà assicurare l’avvento al suo vertice sia delle forze decisive della tradizione laica risorgimentale, sia delle masse organizzate del movimento socialista e comunista, sia delle masse organizzate nei movimenti politici e sociali dei cattolici italiani " . Il mondo cattolico rimase profondamente scosso dall’approvazione del divorzio e come già accennato, corse subito ai ripari decidendo di usufruire dello strumento referendario. Proprio lo stesso giorno della approvazione della Legge Fortuna (era il 1± dicembre) venne diffuso nel Paese un appello firmato da 25 esponenti della cultura cattolica per l’abrogazione della legge in questione: "...Noi siamo persuasi che l’introduzione del divorzio non corrisponde alla volontà della grande maggioranza degli italiani. Gli italiani sentono come valore fondamentale quello della famiglia...La legge ora approvata è una delle peggiori leggi divorziste oggi esistenti, perchè arriva a consentire che il coniuge colpevole ottenga il divorzio anche contro la volontà del coniuge innocente...avvalendoci dell’istituto previsto dall’art. 75 della Costituzione, noi ci facciamo promotori della raccolta di 500000 firme per chiedere che la legge introduttiva del divorzio venga sottoposta a referendum abrogativo...Italiani, vi invitiamo a firmare..." . La Conferenza Episcopale italiana riunita in assemblea plenaria si dichiarò pubblicamente in questo senso: "I vescovi dichiarano legittimo che i cittadini in problemi di così vitale importanza (come il divorzio) e che toccano le coscienze di ognuno, si avvalgano, a difesa della famiglia, di tutti i mezzi democratici che offre la Costituzione Italiana: riaffermano che i fedeli in quanto cittadini guidati dalla coscienza cristiana, hanno il diritto e il dovere di impegnarsi con tutti i mezzi legittimi per tutelare quei valori che ritengono essenziali per il bene della famiglia" . Così tra il febbraio e il maggio del 1971, grazie alla disponibilità di sezioni concesse dalla DC, furono raccolte le firme necessarie (esattamente 1.370.134) per l’indizione del referendum abrogativo ad opera di un comitato nazionale presieduto da Gabrio Lombardi , formato da cattolici dietro a cui si mosse il mondo della Chiesa e di una restia DC , sempre timorosa di spaccare la sua compattezza elettorale . Ma lo schieramento cattolico non fu così compatto come sembra: molti esponenti delle ACLI e molti sindacalisti della CISL, fra cui un alto funzionario Giuseppe De Luttis manifestarono imbarazzo se non avversione alla decisione di Gabrio Lombardi . Anche all’interno della stessa DC ci furono fermenti importanti in tal senso soprattutto nei movimenti giovanili: "...La crisi della famiglia non è certamente riconducibile all’introduzione del divorzio in Italia, ma piuttosto ad una carenza assoluta di legislazione nel campo del diritto di famiglia ed a sperequazioni sociali ed economiche..." . Anche alcune riviste cattoliche come Testimonianza, Il Regno, rivendicarono la loro opposizione alla consultazione popolare voluta dalle più intransigenti correnti clericali. Anche da parte laica divorzista, che non rappresentò almeno inizialmente uno schieramento compatto, si sostenne l’inapplicabilità della verifica elettorale tramite referendum a un diritto che tutela le minoranze e, nel caso specifico, lo scioglimento del matrimonio, e pertanto fu presentato un disegno di legge di 60 parlamentari, in maggioranza socialisti, con primi firmatari Loris Fortuna e Eugenio Scalfari, che prevedeva di estendere il divieto di effettuazione del referendum popolare ai diritti civili. Tale progetto che implicava quindi la revisione costituzionale con legge apposita con l’approvazione a larga maggioranza, non ebbe successo vista la difficoltà di mettere d’accordo le principali forze politiche del paese. Anche i comunisti desiderosi del dialogo con i cattolici, non videro di buon occhio la prospettiva referendaria foriera di un nuova frattura fra i due mondi, e spinsero per una modifica parlamentare della Legge Fortuna. Anche la senatrice indipendente di sinistra Tullia Carrettoni, presentò nel gennaio del 1972 un progetto di modifica del divorzio che però non venne discusso . Così di fronte all’incognita del voto referendario e all’indecisione dei maggiori partiti nella primavera del 1972 furono sciolte le Camere, rinviando così per due anni la prova referendaria. In un epoca di piena contestazione sociale e crisi politicoistituzionale, le elezioni politiche del 7 maggio 1972 le prime nella storia dell’Italia repubblicana convocate a scadenza anticipata per uno scioglimento delle Camere dovuto soprattutto al timore del referendum, segnarono una stasi a sinistra e un’incremento a destra . Ma la sconfitta maggiore fu per coloro che maggiormente si impegnarono di più per il divorzio che non furono quasi tutti eletti . Tali risultati convinsero, anche se non completamente, le forze cattoliche a tentare la strada referendaria, e i radicali che in un primo momento si erano opposti sia a un tentativo di modifica della legge Fortuna attraverso la proposta Carrettoni che ad un referendum su tale tema , decisero di affrontare quest’ultima soluzione: "Quest’ultima scelta era la conseguenza di un’analisi politica che vedeva i radicali quasi soli e di una linea strategica che esprimeva la loro intera posizione: il carattere dirompente dei diritti civili nel contesto italiano; il paese maturo più di quanto la classe politica ne fosse consapevole...la morte del clericalismo nella coscienza della società" . Il Partito Radicale, per merito di Pannella capì che quello era il momento di inserirsi nello spazio tra le grandi adunate studentesche, la crescente tensione operaia e la parte di società civile desiderosa di rinnovamento e ciò era possibile con il divorzio e la lotta per i diritti civili. Dopo le elezioni del maggio ‘72 si formò un governo Andreotti a cui, nel luglio del 1973 subentrò un governo Rumor, durante il quale continuarono le trattative iniziate mesi prima fra DC, influenzata dalle divisioni vaticane e PCI per una nuova legge sul divorzio, e soprattutto per evitare il referendum che ormai era diventato un ostacolo ingombrante nella strada del dialogo fra i due maggiori partiti. Le trattative, ultima soluzione possibile, condotte da Cossiga e dal senatore Paolo Bufalini giunsero a una conclusione: il primo sottopose al senatore comunista una proposta fortemente caldeggiata da una parte della DC, secondo cui uno dei coniugi avrebbe potuto far opposizione all’altro, rivolgendosi per l’esame del caso ad un tribunale ordinario, il quale avrebbe potuto d’ufficio, congelare la pratica per un periodo di due anni in un estremo tentativo di riappacificazione. Decorso questo termine, la parte opponente avrebbe potuto continuare la prosecuzione della pratica scegliendo, però, a sua discrezione se rivolgersi per il giudizio ad un magistrato civile oppure ad un magistrato ecclesiastico. Tale proposta rappresentò in un primo momento una soluzione felice per tutti, soprattutto per la parte meno intransigente del Vaticano che con la possibilità del giudice ecclesiastico di dirimere la controversia, non vedeva minacciata la sua posizione primaria. Il segretario della DC, Amintore Fanfani, che in un primo momento sembrava d’accordo con questa proposta, poche ore dopo cambiò idea per la conseguente posizione intransigente espressa dal Vaticano e annunciò che il suo partito avrebbe affrontato la prova referendaria; decisione che derivò dallo spostamento a destra del partito di maggioranza relativa, per un possibile giovamento elettorale dall’eventuale vittoria contro il divorzio: "Tutta la strategia del governo Andreotti è stata elaborata con il preciso scopo di imprimere all’asse politico del paese una sicura sterzata a destra...Non dimentichiamo che la DC non è ancora uscita dai traumi dell’"autunno caldo"" . Così l’opinione pubblica vide profilarsi dopo venti anni, un nuovo scontro referendario. Fra il dicembre del 1973 ed il febbraio 1974 l’istituto Doxa condusse, per conto del settimanale Panorama, un sondaggio d’opinione, che vale la pena di riportare.

Il 2 marzo del 1974 cadde il quarto Governo Rumor, e prima di dimettersi fu fissata la data del 12 maggio per il referendum. Il 12 aprile del 1974 si aprì, anche se la battaglia era già iniziata mesi prima, la campagna elettorale ufficiale sul referendum e subito lo scontro si fece aspro: il cardinale Siri, arcivescovo di Genova, si espresse a favore dell’abrogazione della legge FortunaBaslini e a sostegno dei comitati di Lombardi, radicalizzando subito la lotta: "Uno è libero di essere peccatore, assassino, ladro quanto vuole, nella stessa misura in cui uno è libero di andare all’inferno piuttosto che in Paradiso...i fedeli ora sanno come regolarsi: se voteranno NO all’abrogazione del divorzio, non credano di essere d’accordo con Dio" . I pochi sacerdoti che ebbero il coraggio di dichiararsi favorevoli al divorzio furono sospesi come nel caso di Don Colombo insegnante di Filosofia a Lecce, che nel 1970 aveva scritto un saggio "Proposte di un cattolico per il divorzio in Italia". La LID frattanto, priva di mezzi di informazione e pressochè isolata, proseguì la sua campagna ricevendo un preziosissimo aiuto dal settimanale "Il Mondo", che dal febbraio di quell’anno mise a disposizione una pagina: "Il nostro settimanale intende, con questo gesto che è proprio della sua tradizione di libertà e di laicismo, evitare per quanto possibile che si impedisca al gruppo, che prima di ogni altro si è battuto per il divorzio, di continuare la sua battaglia" . Su questa pagina poterono esprimersi laici e cattolici divorzisti; vi scriverà anche Pier Paolo Pasolini: "Io sono per un confronto diretto che porti la DC alla prima sconfitta...Non bisogna mai temere l’immaturità degli elettori..." . Il 15 aprile a sostegno della richiesta radicale e della LID di udienza al Presidente della Repubblica Leone per dimostrare le violazioni della RAI in campagna referendaria, un gruppo di radicali, fra cui Pannella, iniziò un digiuno collettivo di protesta. Anche i comunisti e i socialisti si associarono alla battaglia mettendo in campo tutta la loro forza organizzativa. Il 21 aprile nel pieno dell’azione antidivorzista organizzata dalla CEI, dal Vaticano , e dalla DC , l’istituto di sondaggi DOXA rese note alcune cifre riguardanti lo scioglimento dei matrimoni: il 60,3% delle domande di divorzio sono state presentate nel 1971, il 23,1% nel 1972, il 16,6% nel 1973. La campagna referendaria, che si svolse in un clima politicosociale incandescente per il sequestro da parte delle BR del giudice di Genova Mario Sossi e per un attentato esplosivo compiuto sulla linea ferroviaria BolognaFirenze, vide molti esponenti cattolici parteggiare per il "NO": un esempio per tutti è la dichiarazione del Professor Paolo Brezzi, ex presidente dell’Azione Cattolica di Torino, che dichiarò in un’intervista al Messaggero: " ...Non sussiste il divorzio come contrapposizione all’indissolubilità del matrimonio tipica della dottrina cattolica...Il No al referendum non coinvolge convinzioni religiose. E’ un gesto umano e civile, rispettoso delle libertà altrui e consapevole della realtà attuale" . La campagna clericale e antidivorzista si fece negli ultimi giorni martellante, il PR denunciò decine di sacerdoti che fecero propaganda per il "Sì" affiggendo all’interno delle chiese delle loro diocesi manifesti antidivorzisti. Dallo schieramento divorzista che costituiva ormai un fronte compatto di tutti i partiti laici, si sottolineò per bocca del segretario del PSI Francesco De Martino che la DC si ostinava a presentare lo scontro sul referendum come una scelta fra cattolici e comunisti. La campagna antidivorzista fu infatti condotta dalla DC di Fanfani e dall’MSI di Almirante con toni violenti, cercando di incutere timore ai cittadini di un possibile insediamento al potere del PCI. L’8 maggio il Manifesto rese pubblica una clamorosa lettera di Fanfani inviata ai rappresentanti di seggio: "Caro amico, Alcide De Gasperi così scriveva ai responsabili di seggio nel ‘53: "Mi hanno riferito che tu...hai preso la responsabilità di illuminare gli elettori del tuo seggio e portarli...a votare per la DC...". Per il referendum del 12 maggiocontinuava la lettera le parole di De Gasperi tornano alla memoria. Te lo ripeto anch’io e anch’io ti ringrazio di quanto farai per portare il massimo numero di elettori a votare con la DC un chiaro sì per annullare la Legge Fortuna" . Nei giorni imminenti il voto anche l’Osservatore Romano dette un apporto alla causa antidivorzista: "E’ chiaro che ogni buon cattolico...deve votare contro la legge nel referendum. La votazione a favore del mantenimento della legge (che è in se un male) è positiva approvazione di essa. Ora non si può mai approvare il male" . L’11 maggio nel comizio conclusivo prima del silenzio elettorale il fronte divorzista radunò in Piazza del popolo a Roma migliaia di sostenitori del "NO". Tutti i leader laici, Malagodi, Nenni, La Malfa intervennero: il leader repubblicano pronunciò parole che sintetizzarono il significato della battaglia referendaria: "...Se la battaglia sul divorzio fosse perduta, l’Italia rimarrebbe l’eterno paese della controriforma, del Sillabo di Pio IX..." . Si arrivò così al termine di una dura campagna elettorale condotta con toni di guerra di religione e che ebbe vasto eco anche all’estero: "Tutti i corrispondenti esteri si dichiararono meravigliati di come nel nostro Paese si sia sentita la necessità di indire una consultazione popolare per sottoporre a ratifica democratica una legge istitutiva del divorzio che ormai era presenta in tutte le nazioni civili europee, e che non aveva causato, in esse, nè i traumi, nè i danni grottescamente profetizzati nella campagna elettorale" . Il 12 maggio del 1974 il ministro dell’Interno, il DC Taviani, dette i risultati: su 37.497.091 iscritti nelle liste elettorali votarono 33.039.217 elettori con una percentuale dell’88,1%. Il risultato fu clamoroso: Il NO vinse ottenendo il 59,1% con 19.093.929 voti; il Sì ottenne il 40,1% con 13.188.184.

Paragonato con l’unico precedente della storia repubblicana, il referendum istituzionale del 1946, ecco, nella prossima pagina, il quadro uscito dal voto sul divorzio.

Il popolo italiano si dimostrò così nettamente più maturo della classe politica e disattese clamorosamente le indicazioni del partito di maggioranza relativa: "I giovani, le classi sociali più impegnate, le città più trainanti e civili, le situazioni culturali più aggiornate e meno provinciali avevano detto "No"..." . La vittoria dello schieramento divorzista fu salutata con soddisfazione da migliaia di cittadini: "...l’immensa marea di cittadini di ogni estrazione sociale e di ogni appartenenza politica, percorse in corteo le strade della Capitale, esternando collettivamente l’entusiasmo della prima vittoria dal dopoguerra sulle forze moderate e clericali..." .

La vittoria divorzista dimostrò la fine di un processo di cristallizzazione elettorale che durava da più di venti anni. Il referendum che mise la DC in piena crisi , rilanciò lo schieramento laico e soprattutto permise la definitiva consacrazione del Partito Radicale, che iniziò praticamente isolato questa battaglia con la LID e condusse le classiche azioni dirette, volte a far conoscere ai cittadini il vero significato del referendum. Pochi anni dopo i radicali sull’onda del successo divorzista entrarono per la prima volta in Parlamento, continuando a perseguire, grazie al capo storico Pannella , proprio come strategia politica l’uso dei referendum come tecnica per creare schieramenti trasversali, e soprattutto come contatto diretto con i cittadini senza intermediazioni partitiche: "Pannella è il primo ad aver capito che i timori dei vecchi partiti rispetto al referendum possono essere volti in positivo, e che gli effetti dirompenti all’interno di schieramenti tradizionali possono creare nuove alleanze e nuove ipotesi di governabilità...infatti i referendum radicali, dal divorzio in poi, si sono caratterizzati soprattutto per la valenza antipartitica che essi sprigionavano" .


Il PR dopo il referendum

Il 1974 fu un anno fondamentale per lo sviluppo del Partito Radicale. La vittoria referendaria e la vivacità organizzativa di questo piccolo partito, lo portarono alla ribalta e buona parte dell’opinione pubblica conobbe così per la prima volta i metodi di lotta politica radicali e soprattutto il suo leader Pannella: "Il 1974 è stato un anno importante per la storia del PR: fino ad allora i radicali restavano una minoranza isolata dagli altri partiti e poco conosciuta all’opinione pubblica" . Dalla primavera all’autunno di quell’anno, passando per il divorzio, il PR, condusse una battaglia con le solite azioni fatte di digiuni e campagne stampa, per avere l’accesso alle trasmissioni della RAI, rivendicando anche per le minoranze non presenti in Parlamento, il diritto ad usare i mezzi pubblici di informazione. In un documento approvato all’inizio di luglio dal PR si rivendicò questo diritto: " L’opera di vero e proprio assassinio politico delle minoranze politiche e laiche...attuata con la violazione sempre più palese dei diritti fondamentali del cittadino...appare ormai quasi compiuta...il dissenso organizzato, le diversità religiose, culturali, politiche, sono ridotti all’illegalità...L’assemblea dichiara di accettare la decisione dei compagni che conducono il digiuno collettivo di proseguirlo ad oltranza..." . A metà luglio il digiuno di Pannella superò i settanta giorni e divenne un fatto da non ignorare più da parte degli ambienti politici e giornalistici. La novità dello stile delle battaglie radicali e la ostinazione nel proseguire i digiuni, aprì infatti una discussione nell’opinione pubblica che si occupò per la prima volta in maniera completa del mondo radicale. Tra la stampa il "Corriere della Sera", dedicò particolare attenzione alla lotta radicale grazie all’intervento di Pier Paolo Pasolini, che esaltò inoltre la loro nonviolenza e la totale estraneità al potere politico: " Caro lettore...Marco Pannella è a più di settanta giorni di digiuno... per l’informazione laica e in particolare il diritto all’informazione delle minoranze laiche...Si tratta di una richiesta di garanzie di normalissima vita democratica...questo principio assolutamente democratico è attualizzato da Pannella attraverso l’ideologia della nonviolenza...Ora ti meraviglierai profondamente, caro lettore, nel conoscere le iniziali ragioni per cui Pannella e altre decine di persone hanno dovuto adottare questa estrema arma del digiuno...Nessuno infatti ti ha informato...invece eccole: La garanzia che fosse concesso dalla RAI un quarto d’ora di trasmissione alla LID ...la garanzia che il Presidente della Repubblica desse un’udienza pubblica ai rappresentanti della LID e del Partito Radicale..." . Pochi giorni dopo anche il settimanale "Il Mondo" pubblicò un’intervista di Pasolini a Pannella in cui il leader radicale accusava i mezzi di informazione di essere attigui al "regime": "...Noi diciamo che il regime si chiude. L’insensibilità della stampa, per settanta giorni, al nostro caso, è stata una dimostrazione enorme di questa nostra affermazione...Quando si può dire che un regime è tale? Lo si può dire quando esso non ha più bisogno della violenza perché i suoi valori siano accolti "da tutti"...Se davvero crediamo nella libertà come metodo, se siamo dei libertari, allora dobbiamo appunto considerare la libertà come un fine..." .

Queste azioni portarono ad attriti con il mondo politico e soprattutto con il PCI, ormai proiettato nell’ottica del compromesso storico , che rivendicò la non centralità del tema dei diritti civili e rifiutò atti simili compiuti da minoranze: "Per quanto riguarda le richieste di Pannella...non le consideriamo neppure il centro della problematica urgente della vicenda nazionale...e non pensiamo neppure che i gesti, disperati o clamorosi, servano a qualcosa...i suoi metodi non ci consentono di cambiare parere sulla richiesta degli otto referendum, che riteniamo sbagliata" . Agli inizi del 1975 il PR si prodigò per raccogliere firme per un referendum abrogativo per l’aborto e il 5 febbraio di quell’anno, grazie all’appoggio de "L’Espresso", furono consegnate in Cassazione ben 750000 firme per un referendum che avrebbe dovuto tenersi nella primavera dell’anno successivo .

Al XV Congresso svoltosi a Firenze nel Novembre del 1975, il PR constatò la sua crescita non solo come bagaglio di esperienze ma anche come organizzazione interna, consistentemente accresciuta e come interesse da parte di altri partiti . Il principale interlocutore politico fu individuato nel PSI e intenzione dei radicali fu non solo di preparare un comune programma politico di legislatura, ma anche di creare un rapporto federativo tra i due partiti, con le rispettive autonomie. Nonostante la vicinanza politica con i socialisti e la volontà dei radicali di creare in Italia una componente socialista e libertaria, nel 1976, come abbiamo già visto, il partito decise di tentare il grande passo dell’esperienza parlamentare e di presentarsi da solo alle elezioni politiche . Durante la campagna elettorale i radicali dopo un iniziale ostracismo della Rai e dopo un nuovo digiuno riuscirono ad ottenere l’accesso alle trasmissioni Tv per esprimere le loro idee. Il messaggio elettorale dei radicali, caratterizzato da un linguaggio diretto e dissacrante, verteva in primo luogo sulla difesa dei diritti civili e in secondo luogo sull’invito alle forze di sinistra di desistere dalla continua ricerca di accordo con la DC. Il PR ottenne l’1,1 % dei voti (394.439) e 4 deputati . Così il partito riuscì a mutare la sua condizione da promotore di lotte extraparlamentari a forza politica in grado di portare proprio dentro le istituzioni le proposte. L’esiguo gruppo parlamentare radicale cercò subito di instaurare rapporti di collaborazione con il PSI, proposta che venne subito rigettata dai socialisti . Il tentativo costante del gruppo radicale di aprire in Parlamento un dialogo con il resto della sinistra dette scarsi risultati: nella legislatura infatti della cosiddetta "solidarietà nazionale", il progetto radicale risultò inattuabile e Pannella e gli altri esponenti radicali si batterono contro la politica messa in atto dalla maggioranza della DC e del PCI .

Con la votazione del governo Andreotti nell’agosto 1976, che ebbe anche il sostegno attraverso l’astensione dei laici (PRI, PSDI) e della sinistra storica (PSI, PCI), il Partito Comunista entrò di fatto nell’area governativa: "Era nata attraverso la convergenza dei partiti del cosiddetto "arco costituzionale" una nuova stagione politica che relegava i radicali in un ruolo assai difficile e assolutamente singolare di oppositori quasi unici (Insieme a Democrazia Proletaria)...".

Conseguente fu quindi l’isolamento parlamentare dei radicali che votarono contro per numerosi provvedimenti come per esempio la legge sull’aborto che nacque come frutto di compromessi fra cattolici e comunisti. Il momento di massimo isolamento parlamentare si delineò all’inizio di marzo del 1977, quando al momento della discussione dello "Scandalo Lockheed" e della messa sotto accusa dei tre ex ministri Rumor, Tanassi e Gui, il capogruppo radicale Pannella chiamò in causa il presidente della Repubblica Giovanni Leone, e chiese un allargamento dell’indagine per accertare le sue responsabilità. Questa linea di azione radicale che mirò soprattutto ad allargare il processo al regime democristiano, mostrando come lo scandalo non fosse un’eccezione, ma una normale gestione di potere, rimase però isolata. L’esperienza parlamentare dei radicali confermò che l’azione parlamentare si sarebbe potuta rafforzare solo con un’azione diretta nel paese e quindi con il progetto referendario. Il Congresso di Napoli del novembre 1976 confermò questa strategia: "...solo con il consenso popolare espresso attraverso milioni di firme di democratici che non si consegnano al compromesso concordatario...sarà possibile impedire che in questa legislatura la DC crei le premesse per rovesciare i successi della sinistra, bloccare ogni volontà e possibilità di alternativa, di rinnovare e consolidare il proprio potere" .Il referendum rimase quindi per i radicali l’unico mezzo per scardinare il sistema che si era venuto a creare e per eliminare leggi che impedissero libertà individuali e collettive. Nell’Aprile del 1977 infatti, il PR aprì la campagna per la raccolta firme dirette a richiedere otto referendum, tra cui quelli per l’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti, della legge Reale sull’ordine pubblico e sull’articolo del codice penale fascista sul delitto di aborto . I radicali attribuirono a questi otto referendum un significato oltre che di rottura degli equilibri statici del sistema politico, di trasformazione a vantaggio delle forze di sinistra: "I radicali consideravano lo strumento referendario l’iniziativa più adatta per scuotere l’immobilismo e per dare fiato alle istanze di chi non accettava la politica del "compromesso storico"" . La campagna a cui aderirono Lotta Continua, movimenti minori e singoli militanti di sinistra, si concluse positivamente con la consegna alla Cassazione, nel giugno, delle firme necessarie: "...oltre 700000 firme per ciascuna richiesta di referendum per un totale di cinque milioni e mezzo di adesioni" . Con l’uso positivo del meccanismo referendario i radicali ritrovarono così la loro dimensione di sempre, di movimento operante nella società per un rinnovamento politico e sociale. La Corte Costituzionale non ammise i referendum sui codici e l’ordinamento giudiziario militare, sul Concordato e sul codice penale fascista ; si votò quindi solo sul finanziamento ai partiti e sulla legge Reale, visto che per i manicomi, la Commissione Inquirente e l’aborto furono emanate nuove leggi.

L’esito referendario dell’1112 giugno 1978 non fu però positivo, anche se la richiesta di abolizione del finanziamento ottenne il 43 % dei voti e l’abolizione della legislazione straordinaria sull’ordine pubblico il 23%, malgrado nessun altro partito si fosse dichiarato favorevole: un partito con poco più dell’uno per cento aveva fatto breccia su un’altissima percentuale di elettori. La scelta referendaria era ormai divenuta il nuovo strumento per combattere i partiti della maggioranza e soprattutto la DC che secondo i radicali aveva trasformato la propria egemonia in una sorta di vero e proprio "regime": "I diritti civili dovevano essere il terreno adatto per nuove aggregazioni, destinate, secondo i radicali, a risultare maggioritarie e vincenti...di qui la dimensione strategica dei referendum...il voto polarizzato su due scelte, il "si" e il "no", avrebbe comportato necessariamente una bipolarizzazione dello scontro politico e cioè una spinta verso la ricomposizione degli schieramenti in una parte progressista ed in una parte conservatrice facente capo alla DC, considerata la vera destra storica del paese" .

Tra l’inverno del 1978 e il marzo 1979 i radicali misero a punto un nuovo "pacchetto" referendario. Le richieste furono dieci : Legge Cossiga (ordine pubblico), reati di opinione, riunione e associazione, ergastolo, caccia, porto d’armi, tribunali militari, legalizzazione delle droghe leggere, centrali nucleari, smilitarizzazione della Guardia di Finanza, più tre sull’aborto, di cui uno radicale volto a garantire un pieno diritto all’interruzione di gravidanza .

Proseguì nel frattempo la felice stagione elettorale radicale: nelle elezioni politiche del 1979, anche per effetto di consensi venuti meno al PSI da parte dei suoi tradizionali elettori che non si riconoscevano nella politica di Craxi, il PR, che candidò fra gli altri lo scrittore Leonardo Sciascia, raggiunse il 3,4% dei voti, con 17 deputati e 2 senatori . Dopo questo consistente successo per un piccolo partito, i radicali preferirono continuare sulla linea del movimento agile, sciolto da ogni impaccio burocratico, evitando così di agire alla stregua di tutti gli altri partiti . In questo periodo oltre agli elementi più attivi da tempo emerse Adele Faccio, Adelaide Aglietta, Emma Bonino, e Francesco Rutelli, obiettore di coscienza, in prima linea per far chiudere la centrale nucleare in provincia di Latina e eletto segretario del partito nel 1981. Accanto a questi troviamo alla presidenza del partito personalità della cultura come lo scrittore Elio Vittorini e dagli anni’80 il prof. Bruno Zevi. Il 9 febbraio 1981 la Corte Costituzionale ammise sei dei dieci referendum radicali per i quali la votazione fu fissata per la primavera dell’81: il referendum sull’ordine pubblico ottenne il 14,9 % di "Sì" e l’85,1% di "No", l’ergastolo il 22,6% di "Sì" e il 77,4 di "No", il porto d’armi il 14,1% di "Sì" e l’85,9% di "No". Anche i quesiti sull’aborto furono bocciati, il referendum radicale ottenne infatti l’11,65% di "Sì" e l’88,4% di "No". Negli anni ‘80 l’interesse del PR si intensificò attorno ai temi della non violenza e della disobbedienza civile e si allargò oltre i confini italiani, specie contro lo sterminio per fame delle popolazioni del terzo mondo con richieste tendenti ad assicurare una iniziativa in proposito del Parlamento italiano. Dal 1981 l’iniziativa centrale del PR divenne l’impegno contro lo sterminio per la fame nel mondo e l’azione radicale si concentrò attraverso marce, digiuni collettivi e il manifesto firmato nell’estate di quell’anno, da 54 premi Nobel, che invitava i governi a mobilitarsi per l’obiettivo minimo di tre milioni di persone da salvare dallo sterminio.

Nel frattempo i radicali non persero l’attenzione verso i problemi interni e constatando la situazione politica dominata dai partiti, decisero nel 1983 di presentarsi autonomamente e ottennero il 2%, 11 deputati e un senatore, diminuendo così i voti conseguiti alle precedenti elezioni . In quegli anni i radicali, da sempre contro la politica messa in atto dai grandi partiti, coniarono il termine tristemente famoso di "partitocrazia" e proprio contro ciò, nell’87 i radicali non parteciparono alle elezioni, invitando i cittadini ad uno sciopero elettorale.

Nel XXXIV Congresso, svoltosi a Bologna, nel gennaio dell’88, i radicali decisero di non presentarsi più come tali alle elezioni politiche: nacque così una nuova formazione "transnazionale e transpartitica", priva delle classiche strutture partitiche territoriali e pronta invece a proseguire le iniziative che superassero la logica dei confini nazionali, in particolare sui problemi dei diritti umani e sui problemi dell’inquinamento, auspicando inoltre il tema federalista della costituzione degli Stati uniti d’Europa. L’idea della sovranazionalità del partito, venuta da Pannella, suscitò non poche perplessità nella stessa compagine radicale anche perché serpeggiarono malumori nei confronti di una leadership carismatica che apparve contraddittoria per un partito che si proclamava libertario. Proseguì quindi l’esperienza transnazionale del partito e proprio in nome di ciò il XXXV Congresso si svolse a Budapest, nell’aprile dell’89 ; nel corso di questo congresso il segretario Sergio Stanzani rivendicò la lungimiranza della scelta che aveva trasformato un partito di italiani in un partito composto da oltre 50 etnie europee, africane, asiatiche . Il Partito Radicale transnazionale e transpartito continuò sulla sua strada aggiungendo ai consueti temi, anche la lotta contro ogni forma di proibizionismo in materia di stupefacenti e l’impegno contro la pena di morte, da abolire in tutti i paesi. A partecipare alla vita politica italiana restò una nuova formazione politica, un movimento creato da Pannella e denominato proprio Lista Pannella per sottolineare la personificazione del partito e per simboleggiare il valore della persona da eleggere mediante il sistema uninominale, propugnato da sempre dai radicali. Lo stesso movimento, creato nel 1992, si è progressivamente avvicinato al Polo di centrodestra e in particolare a Forza Italia , per poi distaccarsene quasi subito per inevitabili divergenze di carattere politico, preferendo così ancora una volta rimanere, a prezzo del rischio di un totale isolamento, un soggetto politico fuori dagli attuali schieramenti.

 


CR Critica Radicale - 16/03/13 - E-mail: info@eclettico.org