Giovanni Cominelli

NUOVI SCENARI RADICALI - UN CONTRIBUTO

 

Premessa

Lo scoramento che ha colpito, qua e là, l'area radicale nasce dalle illusioni. I risultati che abbiamo ottenuto erano previsti sia dai sondaggi, compreso quello commissionato da noi, sia dalle nostre più empiriche osservazioni sul campo. Era stato facile prevedere fin dal Comitato di dicembre, e ribadire in quello di aprile, che lo scontro bipolare avrebbe frantumato le forze intermedie e che, pertanto, il 4% era un miraggio, non solo per noi. E, infatti, i sondaggi, tutti quanti, ci hanno sempre collocato in un'oscillazione tra il 2% e il 3%. Quanto al seggio al Senato, era realisticamente prevedibile solo se Di Pietro non si fosse presentato da solo. Quando, a marzo, a Vigevano noi abbiamo raccolto in un giorno 40 firme e Di Pietro 700, è suonato forte e chiaro l'allarme per noi quassù (intendendo per "noi" anche i compagni della Direzione venuti da Roma a Milano per dirigere la campagna elettorale in Lombardia): il seggio senatoriale non sarebbe stato nostro. In effetti in Lombardia Di Pietro ha raccolto il 3,9%, drenando un bel pezzo dell'ala giustizialista della Lega. Anche se Emma Bonino avesse raccolto il triplo dei voti nel Collegio di Milano-Centro, non ce l'avrebbe fatta lo stesso, giacché conta la percentuale regionale.

Né pensavo, e non ho mancato di dirlo per tempo, a costo di qualche impopolarità, che il Satyagraha avrebbe portato voti. Ci ha portato lettori, semmai, non elettori.Tuttavia il pericolo maggiore per noi non è lo scoramento, sono gli anestetici. Credo che valga anche per i Radicali l'invito che Sofri ha rivolto alla sinistra: niente anestetici! No alle rappresentazioni oniriche ed autoillusorie, no ai luoghi comuni. E' una cattiva operazione intellettuale e politica quella di combattere lo scoramento con il pensiero desiderante. Soprattutto dobbiamo evitare quell'atteggiamento di pigrizia intellettuale che consiste nel cercare nella realtà solo le conferme alla nostra strategia politica, considerata a priori giusta e immutabile. No all' "infallibilismo", perché ci confina in un mondo a parte, dove tutto funziona, solo perché noi lo abbiamo creato così. Il metodo della fallibilità e della falsificazione, il metodo dell'intelligenza laica e liberale, è l'esatto contrario di quella mistica "metodologia dell'inverificabile", che qualcuno ostinatamente propone dopo ogni sconfitta e che finisce per ammantare atteggiamenti conservatori con una verbigerazione retorico-rivoluzionaria.

Perciò io non partirò dall'analisi delle ragioni della nostra sconfitta, ma dallo stato del Paese che il 13 maggio ci consegna. A partire da questo è più facile, forse, trovare una via d'uscita e comprendere le cause della nostra sconfitta. Dall'anatomia del risultato si può risalire a quella della nostra sconfitta. Giacché di sconfitta si tratta. Il fatto che ci riconosciamo di aver condotto una brillante e appassionata campagna elettorale, che ha seminato molto più di quanto abbiamo raccolto, non può occultare il dato drammatico: non è una vittoria, ma una sconfitta. Se questa sconfitta chiuda solo un ciclo dell'esistenza radicale o la nostra esistenza come tale, dipenderà da noi, dalla nostra capacità di costruire nuove strategie e di cambiare radicalmente quelle vecchie. E non credo che sia un buon rimedio quello del "primum vivere, deinde philosophari", che ha già portato altri alla rovina. Non possiamo vivacchiare per mesi tra passivi silenzi, vecchi espedienti, un po' di bricolage, in attesa che ci venga qualche idea geniale o che capiti qualche congiuntura favorevole. Rovesciando il detto, "primum philosophari, deinde vivere"! Perciò è urgente che stringiamo i tempi della riflessione e della decisione, prima che, tornando a settembre, scopriamo, come è già in parte accaduto nel settembre 2000, che i militanti hanno consumato un'ulteriore secessione silenziosa e che la già fragile ragnatela radicale è piena di sbreghi.

 

IL PAESE DEL 13 MAGGIO

 

Un primo dato di novità è che il bipolarismo avanza ormai celermente. La misura del consenso a ciascuno dei due Poli non è cambiata di molto dal 1996 ad oggi e neppure l'inversione dei rapporti di forza è stata così radicale. Lo confermano i risultati delle amministrative nelle grandi città. Ciò che è cambiato è la struttura politica del bipolarismo. Avevamo chiesto ai cittadini, lo scorso anno, di abolire la quota proporzionale del sistema elettorale. Si sono rifiutati di farlo. Neppure il 13 maggio 2001 l'hanno abolita, perché non era nella loro disponibilità, ma hanno abolito elettoralmente tutti i partiti (salvo Rifondazione) che stanno sotto il 10%, i partiti che puntavano sulla quota proporzionale sia per pesare all'interno dei due Poli sia per esistere all'esterno dei due Poli. Noi continuiamo imperterriti a recitare la giaculatoria dei 44 partiti, impigliati come siamo nella nostra propaganda. Ma i cittadini italiani vedono altro: due leader, uno di governo e uno di opposizione, il primo tiene insieme Forza Italia, An, Lega, Biancofiore, il secondo "guida" Ds, Margherita (la quale a sua volta è composta da soli due partiti veri: Popolari e Democratici), e un ex-Girasole, con due miseri petali precocemente caduti. Il resto sono sigle a perdere! L'elettorato ha risposto al nostro invito ad una semplificazione del sistema politico. E' una vittoria postuma del referendum!

Si tratta di nove partiti, raggruppati in due coalizioni-partito. All'esterno: Rifondazione, unico partito presente alla camera e al Senato, Di Pietro e D'Antoni, presenti solo Senato, e noi, assenti da tutto. E fanno 13, non 44!

Insomma: sta cambiando l'architettura del sistema politico. So bene che la mancata abolizione legislativa della quota proporzionale rende fragile il sistema e teoricamente reversibile l'attuale dinamica. Ma non vedo come Berlusconi, che ha vinto sonoramente con questo sistema, possa tornare alla proporzionale. E quelli che la volevano non ne hanno più la forza. Sartori ha osservato, con l'aria di voler minimizzare, che la legge elettorale è rimasta invariata dal 1996 ad oggi e che pertanto l'unico vero cambiamento è stato quello politico dell'alleanza di Bossi con Berlusconi. Insomma: sarebbero cambiate solo le alleanze politiche. Ma è opportuno indagare sulle motivazioni di quell'alleanza e, in ogni caso, sui risultati. I motivi: è stata la pressione del sistema bipolare a spingere un Bossi, riluttante, ad allearsi con Berlusconi, con la consapevolezza, rivelatasi preveggente, che da solo non ce l'avrebbe più fatta né ad andare al governo né, forse, in parlamento. Comunque, l'effetto inatteso del Bossi proporzionalista si staglia netto, al cospetto dell'opinione pubblica: un sistema bipolare più saldo, in grado di garantire, assai meglio che nel quinquennio precedente, la governabilità, che è la domanda fondamentale rivolta dai cittadini al sistema politico. Non mi sfuggono le contraddizioni politiche all'interno dello schieramento di maggioranza, prevedibili tanto quanto era prevedibile un ridimensionamento della Lega e, dunque, un suo incattivimento. Ma il risultato elettorale ha creato un vincolo di sistema, che il beneficiario maggiore, Berlusconi, si guarderà bene dallo spezzare. Insomma: il cambio delle alleanze politiche ha prodotto un effetto di sistema, che l'ingegner (istituzionale) Sartori non riesce a vedere.

Sempre ostaggi della nostra ideologia, continuiamo a ripetere che questo è un bipolarismo fasullo, sia dal punto di vista istituzionale (perché inquinato di proporzionale) sia dal punto di vista politico (perché sarebbe un unico e solo regime-mostro a due teste). E continuiamo a esaltare le delizie del bipartitismo futuribile. Ma intanto avanzano due coalizioni-partito esattamente come negli Stati Uniti, dove ci sono due partiti-coalizione.

Il secondo dato: per quanto le differenze tra i due Poli possano essere sfumate o, viceversa, gonfiate artificiosamente a fini di battaglia elettorale, certo è che ciascuna coalizione rappresenta interessi, culture e, soprattutto, antropologie diverse, mondi diversi, come in tutti gli altri paesi bipolari/bipartitici. Questi mondi si scontrano non per finta. Come in tutto il mondo, esiste una sinistra e una destra. Naturalmente ci sono passaggi al centro, posizioni intercambiabili, ma il sistema economico-sociale del Paese è un'ellisse a due fuochi politico-culturali opposti. Rappresentarlo come un cerchio con un unico centro politico, Polo-Ulivo, è solo nostra cattiva propaganda, della quale alla fine noi rimaniamo le uniche vittime sul terreno, gli elettori no! La categoria di "regime" che viene invocata ad ogni piè sospinto finisce per non essere esplicativa di nulla, è una chiave che apre tutte le porte e quindi nessuna. E che conduce alla descrizione surreale, presa di peso dalle "Cronache marziane", del quadro della lotta politica in Italia come scontro tra due campi: in uno il Polo-Ulivo, nell'altro i Radicali!

Terzo: la composizione politica dei due Poli è ancora in divenire. In Forza Italia l'ala aziendalista, più incline al liberismo economico, è stata sopraffatta dall'ala neo-dorotea. Il Biancofiore ha molti deputati, ma nessuno eletto per forza propria. Pertanto è a rischio di assorbimento. La Lega ha visto dividersi il proprio elettorato tra un orientamento moderato, che ha votato Forza Italia, e un orientamento giustizialista, che ha votato Di Pietro. In questo quadro An si trova in difficoltà crescenti: i liberali tendono a muovere altrove, l'ala populista, vetero-corporativa e culturalmente reazionaria, guidata da Storace, punta a ridare a An il volto della peggiore destra europea. Tutto ciò non mancherà di influire sull'azione di governo in una direzione assai meno innovativa di quanto Berlusconi prometta.

Quanto all'Ulivo, il quadro appare vieppiù tormentato. I Ds pagano un decennio di liquefazione della vecchia identità comunista, senza essere stati in grado di approdare definitivamente a Bad Godesberg. E ora che D'Alema-Amato (insieme?) si propongono di muovere in quella direzione, la composizione di classe della società italiana è, fin dagli anni '80, esplosa fragorosamente in mille frammenti sociali. Mentre i Ds arrancano penosamente sulla strada per Bad Godesberg, cui la socialdemocrazia tedesca arrivò nel 1957, Tony Blair, Schroeder e Jospin hanno già levato di là le loro tende. Il segnale che D'Alema ha lanciato a Rifondazione conferma che il progetto nasce vecchio e ambiguo. Siamo alla "gauche plurielle?" Ma anche Bertinotti vuol fare la stessa cosa...

Quanto alla Margherita, non so se abbia ragione Piero Ostellino, quando scrive di una giovane neo-Dc in guepière che danza con i tacchi a spillo sul corpo intorpidito dei Ds, ma certo il mix appare instabile: i Democratici hanno un'identità incerta, i Popolari ce l'hanno più salda, ma più conservatrice e, comunque, appaiono profondamente divisi sul loro destino.

Il quadro appena descritto nelle sue linee essenziali (ma sarà interessante l'analisi dei flussi, che l'Istituto Cattaneo sta elaborando) influirà non solo sull'azione di governo, ma anche sull'assetto futuro del sistema politico, del sistema istituzionale, del sistema elettorale. Non credo che si realizzerà, in questa legislatura, una configurazione "partito unico" all'interno dei due Poli. Certo però è che il nostro sistema politico tende sempre più ad assomigliare a quello francese bipolare, pluripartitico, semi-presidenziale (quello della Quarta repubblica e quello della nostra Prima si assomigliavano già come due gocce d'acqua), strutturato su due coalizioni, all'interno delle quali vivono tre-quattro partiti. Il sistema del doppio turno, con sbarramento molto alto, potrebbe rivelarsi come il più adatto a stabilizzare il bipolarismo.

Quarto. I radicali sono assenti dal Parlamento, sede deputata della rappresentanza nelle democrazie liberali. Siamo divenuti, a tutti gli effetti, una forza extraparlamentare. Tutti gli obbiettivi che ci siamo proposti, riassumibili nella "rivoluzione liberale", possono essere da noi generosamente riaffermati e sognati, ma il nostro contributo alla realizzazione delle trasformazioni necessarie per il Paese appare povero di strumenti, l'accumulo di competenze e conoscenze che questo movimento ha sedimentato nel corso degli ultimi quarant'anni rischia di essere abbandonato alla critica roditrice dei topi.

Quinto. Sotto la trama in costruzione del sistema politico-istituzionale, sta il Paese reale che ha votato, con le sue costanti di lunga durata, ma anche con le sue contraddizioni e suoi cambiamenti, che ne hanno forgiato la struttura economico-sociale e la storia spirituale nonché le classi dirigenti. Una società italiana meno semplificata, di quanto lo preveda la nostra filosofia della storia di questo Paese, che ne dribbla allegramente la complessità. Un Paese segnato da tare storiche, ma sesta potenza industriale del mondo. Nessuno, nel secondo dopoguerra, l'avrebbe potuto prevedere. Con un sistema politico che ha incorporato la cortina di ferro, che ne ha forgiato i meccanismi e la filosofia, estraendo dalle culture politiche del Paese il loro lato più illiberale, producendo una cinquantennale democrazia liberale protetta e dimidiata, senza alternanza, e perciò consociativa, dalla quale sta incominciando a trovare una via d'uscita nel corso di questo decennio del nostro scontento.

Sta, il Paese, con le sue paure di cambiare, con le sue sfide, con le sue minoranze attive. L'idea di una sostanziale immobilità, il regime come un oceano senza onde e senza sponde, appare falsificata. Così come l'idea di un terzo stato in situazione pre-rivoluzionaria, una vasta prateria che attende la propria scintilla per innescare il rapido incendio della rivoluzione liberale. Il terzo stato all'italiana è stato forgiato da un cinquantennio di protezione statal-democristiana, alla quale si sottraggono, per ora, con fatica, piccole minoranze. Questo "terzo stato all'italiana" ha un senso dello stato, della legalità, dell'etica pubblica tendenti allo zero. Non si vede nei dintorni nessuna "Sala della Pallacorda", dove questi ceti abbiano voglia di riunirsi per proclamare "la nazione siamo noi". E quando lo fanno, nella sede di qualche Associazione industriali, è per chiedere rinnovata protezione. Il trionfo neo-doroteo nel Nord-Est e il crollo della rivoluzione plebea della Lega la dicono lunga al riguardo!

Esce perciò falsificata anche l'idea di sé che i radicali coltivano da qualche anno, l'autocertificazione rivoluzionario-giacobina di una minoranza illuminata, eroica, determinata e, naturalmente, perseguitata e costretta nelle catacombe da un Regime morbido e dolcemente onnipervasivo.

Chaplin, che si china a raccogliere una bandiera, il cui colore rosso serve a segnalare "pericolo", caduta casualmente da un camion, e che, d'improvviso, voltandosi indietro, scopre di avere alle spalle una massa enorme che, equivocando sul colore, lo segue: questo è, appunto, un evento che accade solo nei film! A parte il colore della bandiera, non c'è nessun Chaplin radicale davanti a nessun Terzo stato.

Una descrizione del Paese più accurata è possibile e necessaria, ma almeno in linea di metodo un punto dovrebbe essere incontestato: che occorre evitare descrizioni di comodo per finalizzarle alla definizione del nostro ruolo. La nostra esistenza non è un a priori da cui partire, piegando le nostre analisi al nostro disperato bisogno di ceto politico di dimostrare che la nostra sopravvivenza è necessaria al Paese. E' il Paese, attraverso il voto, che ci dice quanto siamo necessari. A noi spetta l'onere della prova. Come suona un'intelligente e fulminante pubblicità: "tu dici di esistere, ma ne hai le prove?".

Di qui in avanti dovremo fornire prove più convincenti.

 

PERCHE' SIAMO STATI SCONFITTI?

 

Non per le ragioni che ho finora sentito nel dibattito iniziato on line. Si leggono analisi autoconsolatorie, ispirate a riflessi di autodifesa burocratica e a risentimenti.

Per analisi autoconsolatorie intendo tutto quel genere di considerazioni, che imputano la sconfitta al solo fatto che siamo stati oscurati, che esiste un regime illegale o che gli italiani sono stupidi e non ci meritano. Affiora quello che Luca Ricolfi, in un suo recente libro, intitolato "La frattura etica: saggio sulle basi etiche dei poli elettorali"(ed. Trauben), definisce "razzismo etico". L'accusa lui la rivolge alla sinistra: "la credenza di rappresentare la parte migliore del Paese, di essere titolari di una superiorità etica, culturale e politica". Con una differenza: che la sinistra è convinta di essere eticamente superiore alla destra, noi di esserlo nei confronti sia della destra che della sinistra. L'effetto di questo "razzismo etico" è "un atteggiamento mortificante e autolesionistico, che innesca un circuito perverso di chiusura e autoreferenzialità". L'essenza di queste analisi è che la colpa è degli altri e che, quanto a noi, dobbiamo solo continuare le battaglie intraprese. Insomma, come dopo l'8 settembre: la guerra continua! Ci mancherebbe che non continuassimo a batterci per ciò in cui crediamo! Ma a parte il piccolo problema delle truppe, continuare la guerra non è ancora una strategia.

Io propongo un altro approccio: non ci hanno votato, non perché gli elettori non sappiano chi siamo, ma, viceversa, proprio perché lo sanno! Hanno fatto una scelta consapevole, hanno conosciuto e deliberato. Non è solo un'ipotesi. Nella lunga campagna, iniziata alla fine di gennaio e finita l'11 maggio, abbiamo incontrato migliaia di persone, abbiamo raccolto parole e pensieri, sguardi, pernacchie, smorfie e sorrisi, solidarietà e insulti. Nessuno ignorava, soprattutto nei giorni dello sciopero della sete, il chi e il perché? Ma, semplicemente, anche nel caso di atteggiamenti di solidarietà, hanno deciso che non condividevano. Con le motivazioni più diverse: perché ci sono troppi piccoli partiti (44!?), perché siamo di destra, perché siamo di sinistra, perché lo sciopero della sete non ha senso politico ecc...Tutti disinformati e ingannati?

Pertanto si tratta di vedere che cosa non ha funzionato nella collocazione politica, nei contenuti e nelle forme del messaggio. Perché non siamo credibili se non come forza di agitazione e di movimento, non come forza politica di governo? perché siamo collocati nell'arena delle imprese impossibili a farsi, non senza simpatia sincera, purché ce ne stiamo lì, nel nostro recinto dell'impossibile, sul nostro "bateau ivre"?

Come per tutti, vale anche per noi, laicamente, che, se abbiamo perso, è perché abbiamo commesso errori. E se perdiamo gravemente è perché abbiamo commesso errori gravi.

Proviamo a porci non dal lato della percezione smisurata che coltiviamo di noi stessi, ma da quella che i cittadini-elettori hanno di noi!

Che cosa hanno visto di noi?

a) La collocazione: siamo gli unici, o quasi, a non prendere sul serio il vincolo oggettivo dell'architettura bipolare del sistema politico. Ma, mentre è comprensibile per i proporzionalisti, a noi viene imputato come autocontraddizione. E invece questo vincolo è scattato nella testa degli elettori fin dal 1994 e si è riacceso ogni volta che era in gioco il governo, direttamente, come oggi, indirettamente come per le regionali. Fuori dai poli non c'è salvezza. Così ha decretato il popolo sovrano. Quando suona la campana dello scontro bipolare, gli elettori accorrono, attratti ciascuno dal proprio polo magnetico. Quando non suona - è il caso delle elezioni europee del 1999 - allora si dispongono in libertà sullo scacchiere elettorale. Donde la questione delle alleanze o, per meglio dire, dello spirito coalizionale e federativo. Vincono quelle forze che hanno questo spirito. Non è il nostro! Per noi le alleanze consistono nel fatto che uno la pensi come noi, integralmente, su tutto. Siamo disposti a entrare in un'alleanza, solo se ne prendiamo la direzione. Ci muoviamo spinti da un antico riflesso proporzionalistico e secondo una strategia della solitudine, malamente fondata sull'alibi delle imperfezioni del sistema attuale o della attuale configurazione politica dei due Poli.

Ci siamo mossi da soli, ci siamo posti nelle condizioni di muoverci da soli e di non potere più stabilire credibilmente dei ponti o con la CDL o con l'Ulivo. E' una profezia che si autoadempie, del cui esito rimproveriamo, naturalmente, gli interlocutori. I motivi per non fare coalizione sono facilissimi a trovarsi, divergenze programmatiche ce n'è con tutti. Allearsi, viceversa, è questione di decisione e di volontà strategica. Questa è mancata totalmente. Come è andata, in effetti, dal settembre 2000 al febbraio 2001? Contatti volutamente inconcludenti e senza impegno. Appelli lasciati cadere nel disinteresse e poi ripescati solo per farne uso polemico strumentale, quando era troppo tardi. Gioco già fatto con Berlusconi dall'autunno 1999 alla primavera del 2000. Il che ci ha reso inaffidabili non solo agli occhi degli elettori, ma anche a quello dei ceti politici, con i quali, in definitiva, si tratta.

Perché? Doppiezza della nostra cultura politica, siamo "americani", ma pratichiamo una mentalità proporzionalistica. Oppure, forse, abbiamo in mente l'uninominale senza bipolarismo del Parlamento della Destra storica, nel quale i deputati venivano eletti da poche centinaia di elettori. Garibaldi fu eletto con sei voti, Cavour con 200 circa! Là contava il candidato, Destra e Sinistra erano contenitori a posteriori, dove l'eletto si andava a collocare...dopo. Nell'uninominale bipolare di oggi il candidato conta zero, gli elettori votano secondo uno schema bipolare, sull'asse destra/sinistra, per antico riflesso ideologico: votano il presidente, il suo simbolo e...il suo cavallo. Insomma: conta la coalizione, non il candidato di Milano-Centro o di Senigallia.

b) Il messaggio: gli slogan fondamentali della nostra campagna elettorale erano tre: "Libera il sesso, il lavoro, la scienza, la vita". E come "liberare" tutto ciò? La risposta stava negli altri due slogan: "decidi tu o il Vaticano", "decidi tu o il Sindacato". Essi hanno allontanato la destra liberale di Forza Italia e la sinistra liberale dell'Ulivo: la prima, perché ha sempre delegato alla Chiesa cattolica i temi dell'etica pubblica e la manutenzione delle tavole dei valori (penso, in particolare alla borghesia del Nord-Est), la seconda, perché è difficile anche per i palati più audacemente liberali presentare il sindacato come il nemico principale e l'architrave del regime. A meno che si intenda far nostri i paradigmi anarco-capitalisti e anarco-liberali di Rothbard e di Cubeddu. Neppure l'ala più liberista di Forza Italia, penso a Martino, arriva a tanto. I ceti interlocutori del nostro liberismo economico hanno opinioni moderate, quando non reazionarie, sul versante dei diritti civili. Tutto ciò la dice lunga sulla famosa rivoluzione liberale alle porte. E coloro che sono sensibili ai diritti civili, non sono necessariamente liberisti estremi su quelli economici. Ci illudiamo, ogni volta, di prendere i voti dei liberisti di Forza Italia e dei liberali della sinistra. Invece accade l'opposto: che i liberisti e i liberali sono respinti per simmetriche ragioni in direzioni opposte. In realtà, il nostro messaggio è coerente tra i due livelli, ma intercetta interlocutori divisi e perciò appare schizofrenico: continua ad esistere una sovrapposizione meccanica tra il nostro liberalismo dei diritti civili e il liberismo economico-sociale. Queste due vertebre non sono saldate.

Quanto alla forma inusuale e drammatica di lotta politica, chiamata "satyagraha", è stata inefficace, perché essa è coerente con i contenuti e gli interlocutori dei nuovi diritti del 2000, ma assai meno in sintonia culturale e spirituale, proprio come forma "tecnica" di lotta, con i contenuti e gli interlocutori liberisti del Nord-Est. E poiché il mezzo (il satygraha) ha curvato il messaggio, alla fine il nostro messaggio, e perciò il nostro impegno politico, è apparso prevalentemente dedicato ai temi del liberalismo dei diritti civili, insomma strabico! Tutto ciò a Milano, epicentro della nuova rivoluzione industriale e delle nuove libertà di impresa e di lavoro.

In realtà, chiudere la forbice tra i due liberalismi richiederà molto tempo, cultura, educazione, etica pubblica: è l'essenza della maturazione liberale del Paese. D'altronde la schizofrenia del messaggio è perfettamente coerente con la nostra collocazione "né di qua né di là", esterna ai due Poli. Ma otteniamo, appunto, l'effetto opposto: invece di unire i liberali delle due sponde li riconsegniamo separati ai loro potenziali mittenti. Il ponte che ostinatamente lanciamo tra le due sponde liberal/liberiste dei due Poli finisce, ed è già accaduto ripetutamente in questo decennio, per rovinare in acque turbinose.

Rimane sul fondo, irrisolto, un problema: quello della curvatura programmatica delle nostre opzioni fondamentali. Continuo a ritenere che una teoria delle libertà economiche non sia completa senza un'elaborazione più accurata delle linee del nuovo Welfare, dal Workfare alla Welfare community. Questa assenza genera una distorsione nella percezione delle nostre posizioni non solo tra i conservatori statalisti, ma anche tra i liberisti. Il deficit di elaborazione programmatica finisce per approdare all'ideologismo.

Ma forse, più in generale, dovremmo testare il nostro concetto di cittadinanza. Lo sviluppo della civiltà liberale degli ultimi tre secoli ha prodotto, secondo la definizione classica di Marshall, un catalogo di diritti fondamentali: i diritti civili, i diritti politici, i diritti sociali. Nuove frontiere si aprono per ciascuno di tali livelli, sia per quanto concerne i contenuti che per gli strumenti. Ma nella nostra riflessione e nel nostro messaggio la dimensione dei diritti sociali non c'è, se non come necessaria pars destruens critica dell'attuale struttura del Welfare e dei servizi. Dopo c'è il silenzio.

In conclusione: la nostra sconfitta si deve principalmente a noi, dentro un contesto di competizione di tutti contro tutti, nel quale grossi e piccoli hanno potuto persino lamentare, spesso con scarso senso del pudore, l'attacco forsennato di ciascun altro e l'insufficienza degli accessi mediatici, controllati dal partito Rai e da quello di Berlusconi. Ma, per fare un esempio, è ben difficile ottenere udienza dal Corriere della Sera, se a novembre 2000, a uno sgradevole trafiletto sulle nostre elezioni on line, reagiamo definendo il direttore quale "teppista", "terrorista" "erede della P2" o se, ad aprile, imputiamo a Santoro, ospite pregiudizialmente favorevole ai nostri temi, una volontà di agguato nei nostri confronti.

 

CHE FARE?

 

Si apre, ora, la discussione sul "che fare?".

Analoga avvenne all'indomani della sconfitta delle regionali e dei referendum, secondo un cammino tortuoso e inconcludente, che ci ha, alla fine, riconsegnati ad un'altra sconfitta. Attività politica zero, una discussione paralizzante lunga mesi - se ci trovassimo di fronte a una vittoria o a una sconfitta - poi le elezioni on line, una falsa partenza sui temi organizzativi e statutari, la raccolta delle firme, la campagna elettorale 2001. Con risultati peggiori.

Discussioni simili sono presenti in altri campi sconfitti: dimissioni, congressi, scioglimenti.

La prima azione da compiere, in ordine di tempo, anche se non è certo la più importante, è che la Direzione si presenti dimissionaria al dibattito che si apre. Un tale gesto non ha nessun valore salvifico, ma è un gesto laico, che si deve, prima che ai militanti, all'opinione pubblica come segno visibile di piena assunzione di responsabilità e di completa e trasparente apertura del dibattito sulla nostra agenda politica. Come riconoscimento di una sconfitta, non di una vittoria mutilata.

La seconda azione è la definizione di una nuova agenda politica, di cui il primo capitolo è la linea politica, intesa come definizione di una collocazione politica, di un programma fondamentale, di un modello di organizzazione politica, il secondo capitolo un piano di iniziative.

Come continuare, nelle condizioni presenti, la missione che i radicali si sono autoassegnati per la rivoluzione liberale dell'Italia? A questa domanda dobbiamo fornire risposte non convenzionali, non conservatrici.

 

1- LA COLLOCAZIONE POLITICA

 

In questi anni il nostro contributo alla costruzione di un nuovo sistema politico è consistito nel fare un'aspra campagna critica contro il bipolarismo vigente, in nome del modello americano. E poiché non ci illudevamo che il sistema dei partiti avrebbe docilmente partecipato al proprio funerale americano, abbiamo fatto appello ai cittadini per via referendaria. Serve, ora, un bilancio. I cittadini non hanno aderito al nostro appello, il sistema, nel frattempo, proprio con queste elezioni, ha ricevuto dagli stessi cittadini la spinta al cambiamento nella direzione di una sistema bipolare. Ma chi conosce il sistema americano sa anche che il "nostro" sistema americano è un'elaborazione mitologica di quello reale. I partiti federali americani sono coalizioni mutevoli di movimenti, partiti nazionali (50!), interessi settoriali e territoriali, lobbies: sono partiti-coalizione, tenuti insieme dal leader, attraverso un incessante lavorio parlamentare fatto di voti di scambio e di compromessi, non sempre di alto livello. C'è così tanta distanza tra un partito-coalizione all'americana e una coalizione-partito all'europea o all'italiana?

Come si persegue la costruzione di un bipolarismo/bipartitismo stabile? Attraverso la trasformazione delle culture politiche e dei partiti politici. Giacché questi sono, in ogni caso, anche in caso di referendum abrogativo, i promotori dell'iniziativa legislativa attraverso i gruppi parlamentari ad essi legati. Dunque, è nell'arena del sistema politico che si gioca la partita, che si determinano le dinamiche nuove. Sono i partiti in Parlamento che fanno la legge elettorale, in una complessa interazione con l'elettorato, che, nel nostro sistema, ha avuto la penultima parola nel referendum del 1993, ma l'ultima parola nelle elezioni del 2001.

Il modo più efficace per costruire il bipolarismo è, perciò, battersi all'interno di un polo del sistema politico.

Su questo punto non c'è molto da aggiungere: uno spazio per un terzo polo non c'è e neppure per un terzo partito. Gli elettori del 2001 ci hanno posto di fronte alla situazione, che i referendari del maggio 2000 ci hanno risparmiato: il dilemma della scelta. Certo, possiamo come Bertoldo rifiutare l'albero cui ci viene chiesto ogni volta di impiccarci, nella speranza di rinviare indefinitamente l'appuntamento fatale. Possiamo vivacchiare tra un'iniziativa estrema, un'avance verso di qua e/o di là, un'invenzione brillante, ma è ora di prendere atto che l'architettura della lotta politica in Italia è cambiata, dal 1994, e che pertanto i soggetti politici o accettano le nuove condizioni del terreno o cessano di essere soggetti politici. Possiamo fare altre cose: essere movimento civile di volontariato di azione non violenta, possiamo decidere che siamo solo una Ong transnazionale. Ma non partito/soggetto politico di rappresentanza e di governo. Perciò occorre scegliere il campo in cui far valere la presenza radicale. E' il calice amaro che non può più essere respinto. Qualsiasi cosa vogliamo fare nel futuro prossimo, si parte da questo dato. Si può decidere di ignorarlo, naturalmente, ma scommetteremmo sull'impossibile contro il probabile.

Il che implica un salto di paradigma nella cultura politica e nella mentalità. La nostra cultura del maggioritario all'americana è solo formalistica-legalistica; manca, al fondo, la cultura coalizionale, che è l'altra faccia del maggioritario. Nei sistemi maggioritari bipartitici o bipolari, a turno unico o a doppio turno o con quote proporzionali, in ogni caso i "partiti unici" sono delle coalizioni di movimenti, interessi, lobbies di settore o di territorio, disposti a ventaglio, così che "i centri" dei due partiti-coalizione sono adiacenti. Noi non sappiamo convivere con gli altri. Di fronte a qualsiasi alleanza prospettata, siamo bravissimi a individuare i punti di divergenza. Ci sono sempre. Lo facciamo in nome di una metafisica illiberale dell'identità virginale radicale. L'essenza della cultura coalizionale è, evangelicamente, "stare nel mondo senza essere del mondo". Noi realizziamo solo la seconda parte di questo precetto: siamo capaci di non essere di questo mondo, ma incapaci di stare nel mondo che c'è!

Quale campo?

Una scelta di campo o, se si preferisce, di interlocuzione privilegiata non si fa in base a considerazioni tattiche. Deve essere conseguenza dell'identità dei radicali, dell'identità-traiettoria storica dei Radicali.

Sul punto non ho che da riprendere quanto scritto un anno fa per il Seminario di Soriano.

"L'identità radicale è quella della sinistra liberale. E' il movimento sociale e politico per l'inclusione, per l'accesso di grandi masse subalterne ai diritti civili, politici e sociali. Affonda le sue radici nell'intera storia del movimento democratico europeo dell'epoca moderna: nei movimenti riformistici e ereticali della Chiesa cattolica, nelle lotte per la tolleranza religiosa, nei movimenti di resistenza al dispotismo, nei dibattiti di Putney sulla cittadinanza durante la guerra civile inglese, nella rivoluzione inglese, in quella americana, in quella francese, nei movimenti del 1848. Essa ha influenzato, spesso polemicamente, anche il movimento operaio e socialista delle tre Internazionali, compresa l'Internazionale "due e mezzo" dell'austromarxismo, ha influito sui movimenti di emancipazione e liberazione delle donne.

Il fatto nuovo che sta accadendo (ma lo aveva già detto Dahrendorf in un altro contesto più di dieci anni fa) è la fine del movimento operaio, nato nella seconda metà dell'Ottocento, dall'incontro, nel pentolone di Marx, tra l'economia politica di Adam Smith, la filosofia classica di Hegel e il proletariato tedesco.

La fine della cultura politica del movimento operaio fa emergere con maggior forza il lascito della cultura della sinistra liberale europea (cfr. Tony Blair: la lotta di classe è finita, incomincia quella dell'eguaglianza, nel senso della "libertà eguale").

I punti di riferimento filosofici di questa identità stanno nel liberalismo di Constant, Tocqueville, Stuart Mill, Hobhouse, Kelsen, Dahrendorf e nella più recente filosofia politica anglo-americana, da Hirschmann a Rawls, a Dahl, a Giddens, a Sen".

Se questa è l'identità, la scelta unilaterale, autonoma, per decisione propria è quella di collocarsi nel processo di formazione di un partito-coalizione democratico, composto, come quello americano, di vari movimenti e correnti. All'interno di quest'area ci si deve muovere per costruire una Federazione dei liberali, dei socialisti, dei democratici, dei radicali. Occorre avviare confronti esplorativi con i gruppi dirigenti, da Rutelli a Amato a D'Alema a Occhetto a Boselli ai Verdi a Martelli, a Cacciari, a Parisi a La Forgia ecc...ecc...e produrre iniziativa politica "dal basso" coinvolgendo forze intellettuali.

 

2- IL PROGRAMMA FONDAMENTALE

 

I filoni praticati, in ordine cronologico, dal Partito radicale sono quattro: quello antropologico e dei diritti civili, quello globalistico, quello economico-sociale, quello istituzionale. Non li riprendo qui.

Solo due osservazioni.

- La politica consiste nel costruire le condizioni per "la fioritura della persona umana", per lo sviluppo della cittadinanza. Ora, la cittadinanza non è un universale astratto, è sempre "in situazione". La situazione è la Città. Il cittadino è tale quando nasce, abita, studia, lavora, si ammala, muore. L'intera parabola della vita genera questioni specifiche di cittadinanza. E' banale ricordare che essere cittadini a Roma o a Milano implica domande/risposte analoghe, ma non identiche, relative all'ambiente, al Welfare, al lavoro. Esse malati in Lombardia è diverso che esserlo in Lazio o in Calabria. La concezione che noi abbiamo, non so quanto consapevole, è quella giacobina (Costituzione dell'Anno I°, 3 settembre 1791): la cittadinanza è definita esclusivamente nel legame monopolistico tra cittadino e stato. Tra stato e cittadino non possono esistere corpi intermedi, interessi di parte, associazioni o partiti, "società parziali", territorio. La legge Le Chapelier fu varata per scrostare dalla nuda cittadinanza le determinazioni particolaristiche di ceto, territorio, corporazione dell'ancien régime. Ma già la cultura liberale ottocentesca della cittadinanza si è arricchita, rispetto alla curvatura impressa dalla Rivoluzione francese a egemonia giacobina. L'elaborazione programmatica e l'iniziativa politica nonché l'organizzazione politica debbono tener conto del vincolo della "cittadinanza in situazione".

- L'elaborazione programmatica radicale è povera e casuale, non ha strumenti specifici, ha scarsi collegamenti con la ricerca, finisce spesso per subire la torsione ideologico-emotiva di campagne politiche militanti. L'élan vital, l'intuizione creatrice, la prassi tendono a sostituire il rapporto con i luoghi dell'elaborazione intellettuale, con il general intellect . Ma, alla fine, ciò che si deposita sul fondo, è solo materiale ideologico inerte.

 

3- IL MODELLO ORGANIZZATIVO

 

La sostanza della riforma-rifondazione del partito è "fare politica nell'Italia delle cento Città".

Fare politica nella città significa far crescere gruppi di iniziativa politico-culturale città per città sui temi del programma fondamentale radicale. Far politica vuol dire convincere, costruire reti stabili di militanti e simpatizzanti, costruire gruppi dirigenti, leadership diffusa.

L'organizzazione politica è la modalità di distribuzione razionale delle risorse umane e finanziarie per realizzare la missione, il progetto, il programma. Non è un accidente tecnico, è sostanza.

Il modello attuale a centralismo carismatico è fallimentare.

L'organizzazione radicale presenta le patologie tipiche delle comunità chiuse e endogamiche: paura del nuovo e del diverso, fideismo, mito del capo, riti e tabù, ideologismi, paura di cambiare. I successi, come spesso accade, confermano questa struttura, ma le sconfitte la fanno liquefare.

La struttura a "centralismo carismatico" sottoproduce un tipo di militante, la cui adesione al partito è puramente ideologico-emotiva, il che, per un verso, è un fattore propulsivo, ma per un altro non mette in grado il militante di fare i conti con il mondo "fuori" (considerato generalmente ostile e pericoloso), non gli fornisce strumenti culturali per il confronto. Anzi: non esiste il confronto con gli altri, solo l'esibizione testimoniale della propria alterità.

Questa "forma" non fa crescere gruppi dirigenti diffusi, ma solo più o meno originali ripetitori e rifinitori del messaggio. Il dogmatismo, l'integralismo, la convinzione di avere accesso privilegiato all'episteme, l'idea dei pochi eletti, l'incapacità di dialogo con avversari e simpatizzanti. Quando il consenso arriva a noi accade per legge naturale, quando arriva ad altri è attraverso l'istupidimento e l'inganno. Condividiamo gli stessi tic ideologici di alcuni intellettuali azionisti contro la destra, la rappresentazione élitista del mondo, l'aristocratismo intellettuale di un azionismo generoso e impotente. Meraviglia se non accumuliamo consenso e forze? I Radicali sono inchiodati da anni allo zoccolo duro, ma troppo sottile, del 2%, solo perché il loro messaggio è troppo raffinato per il Paese reale o perché non sanno leggere il Paese reale e non gli sanno parlare?

Tra i tanti effetti collaterali, il primo è che, in caso di crisi grave, il partito è esposto a tutti i venti, ripiega su di sé, diviene più introverso e immobile, perde in un giorno la precaria accumulazione di anni.

Il partito si presenta, in queste condizioni, come un aggregato magmatico, che si contrae (sempre di più) e si allarga (sempre di meno), a seconda delle contingenze, senza che rimanga un deposito stabile e strutturato, senza che getti radici in settori sociali e di opinioni, che pure sarebbero in "naturale" sintonia con il suo discorso.

Pertanto, occorre pensare a un modello di partito liberale e federale, con maggioranze e minoranze, articolato sul territorio, con gruppi dirigenti diffusi, con iscritti che partecipano e contano nella definizione delle politiche, con uno statuto. Decisiva sarà la dimensione telematica. Ma il punto continua sempre ad essere quello del modello di partito e delle sue regole del gioco. Nessuna tecnologia è in grado di produrre effetti benefici, se non cambiano le regole esplicite e quelle implicite. Un partito a principio carismatico può benissimo diventare telematico, senza cambiare il principio stesso. Riesce solo ad essere carismatico in tempo reale, cioè in termini più pervasivi.

 

4- PRIMI PASSI

 

Inizio da settembre della campagna nazionale per la costruzione di Centri di iniziativa politico-culturale radicale nelle cento città italiane sui quattro filoni programmatici fondamentali;

Designazione di responsabili regionali, con l'incarico a termine, entro dicembre, di costruire i Centri;

Prosecuzione e conclusione del lavoro di elaborazione statutaria, fissazione dei termini per le iscrizioni e il congresso.

 

Milano, 28 maggio 2001.