Giovanni Cominelli

 

 

"Nessun vento è favorevole
per chi non sa dove andare."
(R. M. Rilke)

 

IDEE PER IL SEMINARIO PROSSIMO VENTURO

 

Questioni di metodo

Possiamo impostare il seminario in due modi:

  1. partire dall’analisi della condizione reale del movimento radicale per tracciare, settore per settore, linee di sviluppo per il prossimo periodo;
  2. partire dalla visione degli scenari politici prossimi per cambiare la condizione presente del movimento radicale, eventualmente settore per settore

Credo che la seconda strada sia quella più produttiva.

Il rischio della prima è che veniamo inondati di materiali e proposte, la cui analisi finirebbe per non afferrarsi a un filo conduttore. Rischiamo di fallire lo scopo del seminario, che, se non capisco male, ha lo scopo di definire le linee di una ricostruzione e di una riconfigurazione del movimento.

La seconda strada richiede che ci sia un’assunzione di responsabilità da subito da parte del gruppo dirigente reale: che faccia proposte, una o più (reciprocamente alternative, se necessario), di analisi, di condotta politica, di modello organizzativo.

Ovviamente, alla base della scelta di una o l’altra di due metodologie sta un giudizio fattuale sulla nostra attuale condizione. Chi pensa alla seconda strada, parte dalla convinzione che il movimento radicale ha subito un colpo politico molto grave e che, pertanto, occorra ripensare alla radice il progetto culturale, la linea politica, il modello organizzativo.

Le pagine che seguono si muovono in questa logica, propongono un’analisi della situazione e delle possibili vie di uscita.

In fondo, tutto si riduce, almeno dal punto di vista del metodo, a ritenere che per uscire dalla nostra crisi (che io non ritengo affatto catastrofica!) occorra partire non da noi, ma dal mondo fuori, per vedere se in questo mondo ci sia o no uno spazio per noi.

 

 

Il quadro politico

1. La sconfitta referendaria non lascia le cose come prima. Ci sono conseguenze per tutti: per il Paese, per lo spirito pubblico, per i partiti.

Il risultato referendario squarcia il velo, che copre il Paese reale.

Si è esaurita la spinta propulsiva verso la Seconda repubblica. Lo spirito pubblico del Paese sta ripiegando.

Tutto ciò è l’effetto di instabilità, di crisi ripetute di governo, di inefficienza e impotenza della politica. Nel giro di pochi anni, la spinta rivoluzionaria dei primi anni ’90 si è indebolita, ha generato il confuso Termidoro della delusione popolare.

Il decennio si chiude senza riforme conclusive sul tema decisivo: quello del meccanismo decisionale, necessaria per affrontare le sfide globali.

Intanto, tutti i parametri fondamentali del Paese sono a rischio.

Tasso di sviluppo basso, inflazione alta, disoccupazione alta, infrastrutture inadeguate, sistema formativo, università e ricerca sostanzialmente irreformati, declino demografico, mercato del lavoro rigido al centro, ultraflessibile ai margini, welfare ingessato, pensioni di anzianità, pubblica amministrazione inefficiente, sistema istituzionale e politico bloccato.

Il Paese che si affaccia sul nuovo secolo appare legato con robuste funi al passato. Sta vivendo, come scrive Rudi Dornbusch, solo l’intervallo tra due crisi, di cui quella futura sarà più grave di quella del 1992?

Certo è che l’Italia rimane un paese a rischio di declino.

2. Da quando ha vinto le elezioni nel 1994 il Polo delle libertà non ha modificato la propria architettura, salvo un breve intervallo.

Tuttavia le novità sono rilevanti. La vicenda referendaria le ha rivelate, come una cartina di tornasole.

La prima è lo spostamento progressivo dell’asse politico-culturale e programmatico di Forza Italia dalle originarie posizioni liberali-liberiste a quelle più classicamente democristiane, a partire dal tema istituzionale a quello elettorale fino alle politiche economiche e sociali. Il reclutamento di democristiani di alto lignaggio nel gruppo dirigente reale di Forza Italia è, insieme, causa ed effetto di questa svolta. Una variante importante di questo indirizzo è quella rappresentata da Roberto Formigoni, appena eletto presidente della Regione Lombardia. Il suo modello è quello della Christliche Soziale Union bavarese (la CSU): conservatrice sui temi etico-antropologici, moderatamente liberista sui temi economico-sociali, moderatamente statalista sui temi del Welfare (privato-sociale sì, ma robustamente finanziato e assistito).

Che questa visione della società porti alla scelta del sistema elettorale proporzionale è perfettamente coerente: il pluralismo corporativo richiede la rappresentanza proporzionale.

Il secondo elemento di novità è costituito dal ritorno all’alleanza organica con la Lega, rifondata nelle elezioni regionali del 16 aprile 2000.

La Lega si è presentata con un programma di devoluzione in materia di scuola, sanità, polizia locale, di coordinamento delle regioni padane, di grandi opere pubbliche al Nord, di stop all’immigrazione "selvaggia".

Alle spalle di questi punti programmatici, sta una piattaforma ideologica contro la globalizzazione, in nome di un’Europa dei popoli e delle destre europeiste, non multirazziale e non multiculturale. Il sistema elettorale proporzionale è l’approdo naturale.

In Lombardia la Lega non è stata determinante nei voti, ma lo è diventata, grazie al meccanismo elettorale, per i seggi. Il che ha comportato una modifica del patto di Macherio e l’emergere di nuove ambizioni di Bossi. La Lega rivendicava la presidenza dei Consigli regionali costituenti, non le "spettavano" assessorati. Ma in Lombardia ne ha due, di cui uno alla cultura, anzi alle culture ( padane, si intende!).

Qualora questo schieramento vincesse le prossime elezioni politiche, porterebbe a termine la transizione italiana, sistemerebbe i parametri fondamentali del Paese, lancerebbe l’Italia nell’agone della competizione globale?

I dubbi sono fondati.

Sono, infatti, pesanti i segnali di un ritorno alla Prima repubblica. Non alla DC, fenomeno irripetibile, ma a una concezione della società e del suo rapporto con la politica abbastanza simile: pluralismo corporativo, politica debole, che fa da notaio o asseconda le transazioni private tra corporazioni con effetti pubblici inattesi, politica del debito pubblico, legalità incerta, sistema elettorale proporzionale.

Né pare che Alleanza nazionale possa modificare questa deriva. Può solo accentuare il lato conservatore della tavola dei valori del centro-destra, ma non certo quello liberale-liberista del programma economico-sociale. I residui veterocorporativi e assistenzialistici, specie nell’insediamento elettorale del Centro-sud, pesano sull’identità di An in senso regressivo.

3. Dal 1996 ad oggi la configurazione della coalizione di governo, vittoriosa nell’aprile del 1996 sotto il nome di Ulivo, è cambiata notevolmente. Il programma dell’Ulivo prevedeva misure moderatamente liberali di riforma dell’economia, del Welfare, della Scuola e dell’Università, della Pubblica amministrazione, della forma di governo, oltre che politiche di risparmio e taglio della spesa pubblica.

Dopo titubanze iniziali, Prodi decise di accettare i parametri di Maastricht, pre-condizione per entrare nell’Unione europea. Ma la traduzione in Legge finanziaria degli impegni assunti in sede europea comportò, nell’autunno del 1998, l’uscita di Bertinotti dalla maggioranza, cui si era collegato, del resto, con un meccanismo di desistenza nella campagna elettorale. D’Alema gli succede, appoggiato da un nuovo interlocutore: Cossiga. L’Ulivo è finito, viene avanti il centro-sinistra. L’immissione, a sostegno dell’alleanza, di forze di centro, di provenienza democristiana, rende ancor più labile l’azione di riforma amministrativa, di liberalizzazioni, di privatizzazioni. Il governo D’Alema si muove tra ostacoli ed agguati. Il sindacato, in particolare il segretario generale della CGIL, Cofferati, pone il veto sul semplice annuncio di riforme delle pensioni di anzianità,

e del mercato del lavoro. Alla fine del 1999 rimpasto: esce Cossiga, entra Mastella con le sue truppe. D’Alema è ormai un leader provvisorio, nessuno lo vuole ricandidare per il 2001. Berlusconi chiede e ottiene da D’Alema di mettere in gioco il governo nelle elezioni regionali. D’Alema perde il governo e lascia il posto ad Amato.

Non è difficile scorgere, attraverso l’intrico delle mosse e delle contromosse, una crisi profonda della spinta riformistica che aveva caratterizzato le intenzioni di governo dell’Ulivo. Non inaspettata. La vittoria del 1996, in cui l’Ulivo conquista la maggioranza dei seggi, ma non quella degli elettori, era stata, innanzitutto, una "vittoria contro", che aveva assemblato provvisoriamente attese di riforma e domande di resistenza al cambiamento. Una parte della base sociale ed elettorale dell’Ulivo, segnatamente quella organizzata dai sindacati, era portatrice di queste ultime. Le attese di riforma, espresse dai settori più dinamici del Nord, sono andate deluse, sono rimaste le resistenze. In questa tenaglia sono finiti prigionieri i DS di Veltroni. Al congresso del Lingotto a Torino (gennaio 2000) è apparso chiaro che l’azionista di maggioranza era Cofferati. La cartina di tornasole è il giudizio politico sui referendum sociali: un inciampo tattico sulla via delle riforme, per D’Alema, referendum antisociali per Veltroni e Cofferati.

Il fallimento dell’esperienza di governo del centro-sinistra in ordine alle grandi riforme necessarie al Paese è, in primo luogo, il prodotto della crisi irrisolta della sinistra, che dal 1989 ad oggi non è riuscita a ricostruire un’identità.

La sua base sociale e culturale si è disgregata con molta lentezza, ma inesorabilmente. Ha cominciato a farlo negli anni '70, con la crisi petrolifera, le delocalizzazioni, le ristrutturazioni industriali. Nel corso degli anni '80 il processo ha subito un'accelerazione.

La base sociale ed elettorale del PCI-PDS-DS è cambiata, sono cambiati gli iscritti, ma i gruppi dirigenti e la cultura politica della sinistra sono rimasti, per l'essenziale, gli stessi, quelli formatisi nel corso della stagione berlingueriana.

D’Alema ha tentato di cambiare, proponendo, fin dal 1994, l’asse della "rivoluzione liberale". Ma, a parte le infinite oscillazioni che D’Alema stesso ha praticato, la sinistra post-comunista l’ha respinta.

La divisione interna sembra ricalcare quella che ha attraversato tutta la sinistra europea negli ultimi vent’anni: un’ala tradizionale, legata alla costruzione del Welfare del dopoguerra e a potenti sindacati, con imponenti basi di massa, contro un’ala socialista liberale, più disponibile all’innovazione, più sensibile alle domande culturali e agli interessi di nuovi settori sociali. Le ragioni degli uni e degli altri sono state sviscerate, i dilemmi sono chiari. Ciò che manca è la capacità di scelta da parte dei vertici. Anche i partiti di sinistra attraversano la stessa crisi istituzionale che colpisce il sistema politico nazionale.

Le domande si affollano chiare e distinte, in fila proporzionale, sulla soglia del partito maggiore della sinistra, ma il gruppo dirigente non è in grado di scegliere, filtrare e, perciò di rispondere.

Questo si deve anche al peculiare modello organizzativo del maggiore partito della sinistra. Il modello cooptativo-consociativo nella formazione delle decisioni e dei gruppi dirigenti preserva l’unità del partito, considerata come un valore in sé. Le linee e i dirigenti potenzialmente alternativi sono assorbiti, depotenziati e addomesticati. In cambio partecipano alla gestione e all’occupazione dei posti che contano. L’unità è garantita, la paralisi anche. E, ciò che è peggio, viene impedito il sorgere di un gruppo dirigente alternativo, in gradi di prendere le redini, se quello in carica fallisce,

Così il motore dei cambiamenti sono gli choc e le crisi catastrofiche.

Il modello liberale della democrazia competitiva viene sostenuto, assai timidamente per il Paese, ma rifiutato per il partito.

Ciò che appare sempre più nitidamente è la crisi finale del movimento operaio, della sua cultura politica, delle sua basi di classe, del suo modello organizzativo.

4. Lo choc liberale e riformatore sul quale contavano i Radicali, quello dei referendum, non c’è stato.

Lungo la strada referendaria i Radicali hanno consumato sette paia di scarpe, ma è stata bruscamente ostruita da una valanga di astensioni (di cui, secondo le analisi dei flussi dell’Istituto Cattaneo, il 44% "fisiologiche", solo il 24% motivate).

Al logorio inarrestabile e, forse, irreversibile dell'istituto del referendum abrogativo hanno contribuito molte cause:

bulletla percezione sempre più netta degli elettori della povertà e rozzezza dell'istituto stesso di fronte a questioni complesse. Vero è che Berlusconi e i soci astensionisti hanno dispiegato tutta la loro geometrica potenza per svilire lo strumento, al cospetto dell’opinione pubblica. Ma già altre volte i cittadini hanno rinviato al mittente i consigli a disertare le urne. Questa volta no!
bulletl'uso improprio e inflazionistico dello strumento da parte dei Radicali: un’escalation di iniziative referendarie, fino alla pretesa di assemblarvi un intero programma di governo.
bulletle risposte-burla di quegli stessi partiti, che pure denunciano i limiti intrinseci del referendum abrigativo: all’esito positivo del referendum del 1993 sull’abolizione della proporzionale, i partiti hanno risposto con la legge-truffa, denominata Mattarellum, il cui cattivo esito è imputato alla scelta referendaria maggioritaria e non ai partiti che l’hanno confezionata.
bulletle mancate risposte dei partiti a problemi che sono all'ordine del giorno da anni (circa il quesito sull'art. 18 dello Statuto dei lavoratori: da tre anni giacciono in Parlamento proposte di legge, da quindici il CNEL aveva proposto soluzioni).
bulletla negazione brutale dei risultati di referendum già vinti e considerati come non avvenuti (es. la legge sul finanziamento pubblico dei partiti, abolita da un referendum precedente, è stata rifatta, peggio di prima).

I partiti hanno ucciso l’istituto referendario, riuscendo ad incolpare i Radicali del delitto.

I Radicali, da parte loro, hanno offerto più di un alibi a questa cinica operazione.

In ogni caso, l’istituto è in crisi profonda e richiede una riforma.

La conseguenza più evidente è la crisi dell’identità radicale.

Il movimento radicale (con ciò intendendo tutte le varie forme politiche che ha di volta in volta assunto) si è costituito come soggetto politico visibile sulla complicata scena politica italiana attraverso la promozione di referendum. Dire "radicale" è dire "referendum". La parola evoca campagne di massa, condotte per strada, tra i cittadini. Evoca battaglie civili, crescita dello spirito pubblico del Paese, modernizzazione, partecipazione. La forza di una domanda strutturata, deposta sulle soglie dei Palazzi dai Radicali, costringeva la politica a farci i conti, a cambiare.

Pertanto la sconfitta referendaria ha per i Radicali una valenza non paragonabile, quanto a conseguenze, a quella dei DS, dei Democratici, di AN.

Tocca le radici della presenza radicale sulla scena politica italiana.

La sconfitta coglie la carovana radicale in un passaggio difficile, in una stretta gola tra le rocce.

Il passaggio è quello da soggetto politico, orientato alle battaglie civili e di legalità, a forza di governo. La scommessa fatta dal gruppo dirigente, negli anni dopo 1989, dopo la vittoria di Berlusconi nel 1994 e dell’Ulivo nel 1996, è stata quella di usare "l’accumulazione originaria" di legami d’opinione e di consenso, conquistati negli anni ’70 e ’80, come massa d’urto verso il sistema politico e verso i governi, candidandosi, a sua volta, a forza di governo.

A questo nuovo orientamento appartiene la candidatura di esponenti radicali nelle file di Forza Italia, quando si annunciava come forza di cambiamento liberale, nel 1994.

La delusione per i risultati della scelta, unita all’idea di trasferire sul piano economico, sociale e istituzionale il paradigma liberale finora verificato positivamente sul piano civile, etico, antropologico, ha spinto il gruppo dirigente radicale a riprendere massicciamente l’iniziativa referendaria. La speranza era che, avendo accumulato forze sul piano "sovrastrutturale" con le campagne referendarie, lo stesso si sarebbe potuto fare su quello più terreno degli interessi e delle classi sociali.

Perciò l’ambizioso programma di riforme del Welfare, del sistema politico, della giustizia venne tradotto in venti quesiti referendari, sui quali raccogliere per mesi le firme di centinaia di migliaia di cittadini, lungo l’asse di una mobilitazione di lunga durata.

A questo capitolo "governativo" appartiene anche la campagna di "Emma for president" e la partecipazione alle elezioni europee, con il meccanismo proporzionale.

Il seguito più recente è noto: la presentazione alle elezioni regionali, con un sistema elettorale, a elezione diretta del presidente, a elezione proporzionale, con premio di maggioranza, dei consiglieri.

Il bilancio è in perdita.

L’accumulazione precedente è andata quasi del tutto perduta, frantumata dallo scontro tra i due Poli. L’Istituto Cattaneo di Bologna analizza nel modo seguente i flussi in uscita dell’elettorato radicale delle europee: il 18% alla destra, il 22% alla sinistra, il 38% all’astensione.

All’attivo rimangono due consiglieri regionali in Piemonte, tre in Lombardia, sette deputati europei, un senatore.

Hanno contribuito al risultato, certamente, anche oscillazioni tattiche improvvise, almeno al cospetto dell’elettorato, che hanno reso scarsamente leggibili l’identità storica e la collocazione politica dei Radicali, nonostante o, forse, proprio a causa dell’esposizione mediatica, che ha impietosamente amplificato le oscillazioni stesse.

Il cerchio si chiude con la sconfitta referendaria del 21 maggio.

 

 

Che fare?

Ai Radicali si impone un salto di paradigma nel pensiero e nello stile dell’azione politica, si richiede una definizione più rigorosa dei fondamenti della loro cultura politica.

La storia delle rivoluzioni scientifiche (e politiche!) è storia di paradigmi che riescono a resistere per anni, a volte per secoli (si pensi al paradigma tolemaico), all’irrompere di nuovi fatti, che non si accordano con la teoria. Abili filosofi e scienziati (e politici!) si ingegnano ad incorporare nella vecchia teoria i nuovi fatti e fanno quadrare i conti. Ma, come spiegano gli storici della scienza, giunti a un certo punto, alcuni fatti sono incomprimibili nei vecchi assetti teorici. Arriva il momento di una nuova teoria, di un nuovo paradigma.

Dopo il 1989, questa avventura è toccata a tutte le forze politiche, che si propongono di governare il nuovo Paese che sta affiorando, sotto la crosta dei vecchi assetti. Era inevitabile che toccasse anche ai Radicali, da quando hanno esteso il raggio delle loro intenzioni e della loro azione, oltre il campo della mobilitazione per i diritti, e hanno elaborato proposte per l’organizzazione economica, sociale, politica e istituzionale dell’Italia.

1. Definire l’identità radicale.

L'identità radicale è quella della sinistra liberale. E’ il movimento sociale e politico per l'inclusione, per l'accesso di grandi masse subalterne ai diritti civili, politici e sociali. Affonda le sue radici nell'intera storia del movimento democratico europeo dell'epoca moderna: nei movimenti riformistici e ereticali della Chiesa cattolica, nelle lotte per la tolleranza religiosa, nei movimenti di resistenza al dispotismo, nei dibattiti di Putney sulla cittadinanza durante la guerra civile inglese, nella rivoluzione inglese, in quella americana, in quella francese, nei movimenti del 1848. Essa ha influenzato, spesso polemicamente, anche il movimento operaio e socialista delle tre Internazionali, compresa l'Internazionale "due e mezzo" dell'austromarxismo, ha influito sui movimenti di emancipazione e liberazione delle donne.

Il fatto nuovo che sta accadendo (ma lo aveva già detto Daherendorf in un altro contesto più di dieci anni fa) è la fine del movimento operaio, nato nella seconda metà dell’Ottocento, dall’incontro, nel pentolone di Marx, tra l’economia politica di Adam Smith, la filosofia classica di Hegel e il proletariato tedesco.

La fine della cultura politica del movimento operaio fa emergere con maggior forza il lascito della cultura della sinistra liberale europea (cfr. Tony Blair: la lotta di classe è finita, incomincia quella dell’eguaglianza, nel senso della "libertà eguale").

I punti di riferimento filosofici di questa identità stanno nel liberalismo di Constant, Tocqueville, Stuart Mill, Hobhouse, Kelsen, Dahrendorf e nella più recente filosofia politica anglo-americana, da Hirschmann a Rawls a Dahl a Giddens a Sen.

2. Definire l’identità programmatica.

I filoni praticati, in ordine cronologico, dal Partito radicale sono quattro: quello antropologico e dei diritti civili, quello globalistico, quello economico-sociale, quello istituzionale.

Il primo è quello più tradizionale: sul suo terreno si è, in effetti, accumulata la forza dei Radicali. La mia impressione, tuttavia, è che i Radicali siano in arretrato di elaborazione sulle questioni antropologiche, che la società dell’informazione e delle biotecnologie ci mette sul tavolo. Ci si muove per prese di posizione occasionali e contingenti, manca il collegamento con le punte avanzate dell’elaborazione intellettuale-scientifica relativamente a ciò che qualcuno ha chiamato "la seconda Genesi" (la creazione di nuove specie vegetali, animali e umane da parte dell’uomo stesso).

Il secondo, emerso con forza al tempo della lotta alla fame nel mondo, oggi deve essere riproposto con forza e riaggiornato alla luce delle problematiche della globalizzazione (governo mondiale, ethos mondiale dei diritti, etica di specie, Seattle e Wto, bomba demografica, questione ambientale) e della costruzione degli Stati uniti d’Europa.

Il terzo è stato clamorosamente esibito attraverso i referendum. E’ il tentativo del passaggio dal liberalismo dei diritti al liberalismo economico-sociale. La direzione di marcia mi sembra indovinata. Si tratta però di completare la teoria delle libertà economiche con una elaborazione sul nuovo Welfare e sulla piattaforma universale di sicurezza.

Il quarto, quello istituzionale (presidenzialismo, federalismo ecc…), continua ad essere assai promettente, considerata la fase di transizione e di progettazione che il Paese sta attraversando.

Un’osservazione generale che si deve fare è che, in realtà, l’elaborazione programmatica nel Partito radicale è povera, non ha strumenti propri, ha scarsi collegamenti con la ricerca, finisce spesso per subire la torsione ideologico-emotiva di campagne politiche militanti. L’élan vital, l’intuizione creatrice, la prassi tendono a sostituire il rapporto con i luoghi dell’elaborazione intellettuale, con il general intellect . Ma, alla fine, ciò che si deposita sul fondo, è solo l’inerzia ideologica.

3. Definire il modello di partito.

La breve, ma intensa esperienza che ho compiuto in questi mesi nel movimento radicale, comparata con quella precedente, prima nei movimenti extraparlamentari degli anni ’70 e poi nella sinistra storica, mi porta a conclusioni assai problematiche.

Il primo tormentone è quello del cosiddetto "Partito transnazionale". Pare che, giuridicamente, solo il Partito transnazionale abbia esistenza, mentre quello "nazionale" no. Ma se guardiamo la realtà e se ci poniamo dal punto di vista dei cittadini-elettori, il punto di vista è rovesciato. Nella realtà delle cose, il partito radicale nazionale è l’unico che esista (sotto le mentite spoglie di Lista Pannella, Lista Bonino ecc… ecc…), anche se non ha esistenza giuridica, mentre il Partito transnazionale, l’unico formalmente esistente, non ha esistenza reale, se non nella forma di iniziative e postazioni internazionali attivate dal partito radicale nazionale. Insomma: il partito nazionale opera sul terreno internazionale, così come d’altronde fanno tutti i partiti italiani.

Eliminare questa nobile doppiezza-finzione e rimettere la testa in alto e i piedi per terra mi pare la prima operazione da fare.

La seconda doppiezza è più grave: i Radicali praticano per sé l’esatto opposto di quanto predicano per gli altri partiti e per il Paese. Vogliono una società liberale e uno stato federalista, ma sono un partito carismatico e ipercentralistico, senza regole. Il modello liberale della democrazia competitiva viene sostenuto entusiasticamente per il Paese, ma rifiutato per il partito.

Il principio organizzatore è quello del centralismo carismatico, illiberale e centralistico-romano, cui fa da interfaccia l’adesione militante fideistica. Il dissenso si esprime "con i piedi", cioè andandosene, oppure ritagliandosi uno spazio nicodemita, al riparo. Non esistono regole per deliberare, non c’è utilizzo razionale delle grandi risorse emotive e intellettuali degli iscritti. Ho scoperto che esistono i Radicali lombardi, nel senso che sono iscritti direttamente a Roma, ma i loro indirizzi sono top secret qui in Lombardia. Come a dire: non si possono organizzare gli iscritti per l’attività politica sul territorio. Il che mi fa prevedere che i militanti si stuferanno di dar soldi senza poter avere in cambio ciò che un normale partito dà ai propri militanti: il diritto e la possibilità di partecipare alla formazione della volontà politica nazionale!

Il partito si presenta, in queste condizioni, come un aggregato magmatico, che si contrae (sempre di più) e si allarga (sempre di meno), a seconda delle contingenze, senza che rimanga un deposito stabile e strutturato, senza che getti radici in settori sociali e di opinioni, che pure sarebbero in "naturale" sintonia con il suo discorso.

Questa "struttura" sottoproduce un tipo di militante, la cui adesione al partito è puramente ideologico-emotiva, il che, per un verso, è un fattore propulsivo, ma per un altro non mette in grado il militante di fare i conti con il mondo "fuori" (considerato generalmente ostile e pericoloso), non gli fornisce strumenti culturali per il confronto. Anzi: non esiste il confronto con gli altri, solo l’esibizione testimoniale della propria alterità.

L’organizzazione radicale, per come la conosco, presenta le patologie tipiche delle comunità chiuse e endogamiche: paura del nuovo e del diverso, fideismo, mitologie del capo, riti e tabù, ideologismi, paura di cambiare. I successi, come spesso accade, confermano questa struttura, ma le sconfitte la fanno liquefare.

Questa "forma" non fa crescere un gruppo dirigente, ma solo più o meno originali ripetitori e rifinitori del messaggio. Tra i tanti effetti collaterali, il primo è che, in caso di crisi grave, il partito è esposto a tutti i venti, ripiega su di sé, diviene più introverso e immobile, perde in un giorno la precaria accumulazione di anni.

Conclusione: occorre pensare a un modello di partito liberale e federale, con maggioranze e minoranze, articolato sul territorio, con iscritti che partecipano e contano nella definizione delle politiche, con uno statuto. Il comune sentire di milioni di cittadini e di giovani, soprattutto in questo tempo di società dell’informazione, si identifica con il valore delle libertà individuali, della democrazia, dell’alternanza, della decisione critica, delle regole condivise. L’attuale modello di partito radicale va in direzione opposta, nonostante la sua retorica libertaria.

Sento parlare di "partito telematico". Internet sta destrutturando l’organizzazione sociale, le istituzioni, la politica, i partiti. Questi ultimi reagiscono tentando di metabolizzare le nuove tecnologie, senza cambiare in profondità le vecchie regole del gioco. Internet consente di sentire le domande degli iscritti e dei cittadini in tempo reale. Ma nulla dice circa le procedure delle risposte. E quindi il punto continua sempre ad essere quello del modello di partito e delle sue regole del gioco. Nessuna tecnologia (né il telegrafo, né il telefono, né il computer) è in grado di produrre effetti benefici, se non cambiano le regole esplicite e quelle implicite. Un partito a principio carismatico può benissimo diventare telematico, senza cambiare il principio stesso. Riesce solo ad essere carismatico in tempo reale, cioè in termini più pervasivi.

La terza doppiezza riguarda il rapporto tra partito e istituzioni. La presenza nelle istituzioni appare assai spesso del tutto strumentale al progetto politico immediato e alle esigenze organizzative del partito. Gli eletti stanno nelle istituzioni, non per onorare il mandato elettorale ricevuto, ma per fare altre cose, decise in una sede tutta politica. Le istituzioni elettive sono vissute solo come comodi ripari e pulpiti per altre battaglie: è l’uso leninista delle istituzioni!

4. Definire scenari politici e alleanze.

Tutti i discorsi sopra enunciati passano per la cruna dell’ago delle scelte politiche e delle alleanze.

Come tutti i movimenti "radicali" i Radicali hanno praticato "l’etica della convinzione" o del "puro volere": essa consiste nel perseguire i propri fini, senza riguardo per le conseguenze, per il contesto, per il consenso.

Il passaggio a uno stile di forza di governo implica l’adozione di "un’etica della responsabilità", cioè la commisurazione razionale dei mezzi rispetto ai fini, delle alleanze rispetto ai programmi, delle conseguenze possibili o probabili della propria azione.

Oltre alla umana tentazione pre- o post-politica di "tornare a casa" che serpeggia, qua e là, tra i militanti delusi, reduci da una lunga e faticosa mobilitazione per le strade e le piazze d’Italia, la tentazione più insidiosa è quella di ripiegare sul terreno degli anni ’70 e ’80 come l’unico più proprio e più agibile dei Radicali. Rinunciare alla politica di governo per tornare alla difesa militante e referendaria dei diritti, che, d’altronde, non sono mai acquisiti una volta per sempre, e della legalità, che rimane ancora un traguardo da raggiungere per grandi parti della società italiana e del territorio nazionale.

Poiché un vento infido ha scomposto il puzzle dell’identità radicale, fatta di liberalismo dei diritti e di liberalismo per la società e l’economia, che lo si ricomponga nella sua prima versione!

Credo sarebbe un’illusione, ma, soprattutto, una perdita secca.

Per quattro ragioni.

 

La prima è che il discorso sui diritti e la legalità non regge, alla lunga, se la società e l’economia nel loro confliggere quotidiano di passioni vitali, di interessi economici, di valori non negoziabili non si strutturano secondo gli stessi principi liberali. Difficile pensare che una società a pluralismo corporativo, bloccata socialmente, politicamente e istituzionalmente, possa preservare stabilmente e far crescere diritti sociali, civili e politici, se non viene investita da una trasformazione liberale profonda degli assetti economici e sociali.

 

La seconda è che, diversamente che negli anni ’70 e ’80, la transizione confusa degli anni ’90 ha liberato forze sociali e culturali nuove. I processi di globalizzazione dell’economia, il terremoto sociale generato dalla pervasiva società dell’informazione, la crescita della potenza intellettuale e della libertà di progettarsi dell’individuo hanno messo in discussione la vecchia Italia. Minoranze sociali decise e consapevoli chiedono una nuova configurazione del sistema-Paese, con ciò entrando in sintonia spontanea con la cultura politica radicale, attenta alle libertà e alle regole, erede di una sinistra liberale, che è nata prima della sinistra del movimento operaio, con il quale si è intrecciata, senza svanire, e dopo la quale può continuare a fornire simboli e senso per l’azione civile e sociale.

 

La terza ragione è che il Paese sta giocando, in questi anni, una partita decisiva sul crinale tra sviluppo e lento declino. Il rinnovamento della politica e del sistema istituzionale è la prima condizione per spingere il Paese verso il futuro, senza rimanere indietro nella competizione aperta tra sistemi nazionali e continentali.

 

La quarta: il travaglio del sistema politico e delle singole forze non è affatto placato. Scomposizioni e ricomposizioni continuano a caratterizzare la dialettica confusa degli schieramenti politici. L’ipotesi della costruzione di un nuovo soggetto centrale sottopone a stress molto forti l’intero sistema e i singoli partiti.

Particolarmente grave appare la crisi di DS. La discussione post-elettorale trova i DS divisi su due linee. Una linea, sostenuta dalla sinistra e da una parte della palude centrale, ritiene che le sconfitte elettorali siano il frutto di una cesura ingiustificata con il passato del movimento operaio (leggi PCI). Pertanto i DS debbono tornare ad essere "più di sinistra". Un’altra, minoritaria, si sforza di collegarsi alla sinistra socialista liberale europea di Blair e di Schroeder. D’Alema sembra appartenere a quest’ultimo schieramento. La piattaforma è quella di Blair: la lotta di classe è finita, incomincia quella dell’eguaglianza. In filigrana si legge la consapevolezza della fine del movimento operaio.

Lo scenario di un’operazione partito democratico all’europea in grado di convogliare, in un assetto bipartitico/bipolare le forze di democrazia liberale e quelle restanti della sinistra liberale, potrebbe presentarsi come realistico nel periodo a venire.

Dobbiamo solo decidere se dobbiamo essere noi a lanciare questa prospettiva di costruzione del partito democratico a fronte di "un partito repubblicano" (Forza Italia, An, Lega), caratterizzato da una vena fortemente conservatrice in campo antropologico e liberal-populista (sic!) in campo economico-sociale.

Alla luce di questo scenario occorrerà fare le scelte in vista delle elezioni politiche.

La prima condizione per le scelte è quella definita dal sistema elettorale.

 

Se rimane il Mattarellum, andremo alle elezioni con due leader: Berlusconi e NN.

Lo spazio per un terzo polo non c’è.

In questo caso, possiamo trattare, dall’alto del nostro 2,2% qualche posto di deputato oppure possiamo cercare compagnia (es. con i Democratici, con i Verdi) per oltrepassare lo sbarramento del 4% e sostenere, con una lista separata, il leader NN.

 

Se si passa al sistema tedesco, con proporzionale al 50%, allora è possibile che ci sia terzo leader: D’Antoni.

Ma anche in questo caso c’è lo sbarramento (al 5%?), e si ripropone il problema di cui sopra.

Per poter fare delle scelte, occorre, in ogni caso, muoversi da subito. L’isolamento potrebbe essere fatale.

 

 

I primi passi

 

  1. il "gruppo originario", definito per autocooptazione, si assume la responsabilità e l’onere di scrivere (dopo il seminario) delle tesi politiche e programmatiche (con gruppi di elaborazione sui quattro filoni sopra indicati), nelle quali di definiscano identità, programma, scelte politiche e modello di partito (lo statuto);
  2. lancio a settembre di una campagna di iscrizioni e adesioni in tutti i settori della società italiana;
  3. convocazione per il mese di gennaio di un congresso di fondazione del Partito radicale, che approva le tesi, lo statuto, elegge il gruppo dirigente;
  4. se invece ci sono le elezioni? Bisogna procedere comunque!

 

 

NB!

All’ipotesi di una "rifondazione radicale" Marco Pannella mi ha obbiettato che finirebbe per essere il riciclaggio di ciò che già siamo o ci gira attorno. Marco sostiene che occorre un’operazione molto più grande e più ambiziosa. Incomincio a pensare che questa obiezione sia solo un alibi per continuare pigramente nello status quo. Operazioni più grandi, fino ad arrivare al partito democratico, si possono fare, se qualcuno si mette in cammino da subito da molte direzioni, con le forze che ha. Peraltro, la mia breve esperienza mi ha fatto incontrare una cerchia molto vasta e disponibile al discorso liberale, a condizione che ne diventiamo l’interlocutore liberale credibile e identificabile.